Coronavirus: la paura, il coraggio, i valori
Il mondo cambierà a causa dell'epidemia di Covid-19. Dopo la quarantena sarà mutato, in maniera profonda, il comune concetto di libertà
“Outbreack” (“Virus letale”) è un film statunitense di 25 anni or sono del regista Wolfgang Petersen. Forte di un cast di attori formidabili (Dustin Hoffman, Morgan Freema, Kevin Spacey, Patrick Dempsey), “Outbreak” (epidemia) fu premiato al Saturn Awards for Science fiction, fantasy and horror films come miglior film di fantascienza nel 1996. Come sempre, l'Arte anticipa la realtà, mentre la Scienza – spesso presa di sorpresa (come nelle epidemie virali) – la insegue… Nel film si racconta di un ufficiale medico statunitense, Sam Daniels, inviato in Africa per indagare su un nuovo virus devastante molto più dell'Ebola, il Motaba. Il dottor Daniels, che ha visto con i suoi occhi alcuni casi fulminanti, nei quali il virus attacca le cellule ad una velocità impressionante, uccidendo il contagiato in meno di 72 ore, ritorna convinto del pericolo di un'epidemia spaventosa anche negli USA, ma nessuno crede alle sue teorie. Fino a quando, in una cittadina californiana, compaiono le prime, numerose vittime di un virus molto contagioso e letale. Si scopre, poi, che i militari avevano ritardato le cure di contrasto al virus, per poter continuare la sperimentazione di armi batteriologiche… Anche il dottor Li Wenliang, giovane medico cinese di Wuhan, che aveva dato per primo – nel dicembre 2019 - l'allarme sulla possibile diffusione epidemica di un nuovo coronavirus (Covid-19), non è ascoltato. Anzi, viene screditato, minacciato dalle autorità di Polizia, che invece di verificare quell'allarme (si era in tempo a fermare il contagio) accusano il medico di diffondere notizie false e lo arrestano. Wenliang, riabilitato un mese dopo dalla magistratura e dai media, torna a lavorare in ospedale, ma rimane contagiato da una paziente e viene così violentemente aggredito dal virus che aveva scoperto, che in pochi giorni (come nel film) lo uccide a soli 33 anni. Quando il 5 febbraio, alle ore 21.30, il suo cuore cessa di battere, in Italia sia ha notizia dei primi casi di contagio, con un'escalation impressionante nei giorni e nelle settimane successive, dapprima nelle grandi Regioni del Nord. Nel giro di un mese si passa – come spesso avviene in Italia - dalla sottovalutazione del problema (“E' solo un'influenza!”, stadi di calcio gremiti, settimane bianche di gruppo, feste in discoteca, degustazioni di spring rolls dei politici nei ristoranti cinesi con baci, abbracci e immancabili selfie di testimonianza…) a situazioni di panico, con svaligiamento dei supermercati per accaparrarsi i beni di prima (e anche seconda) necessità. Il mese successivo (marzo) si corre tardivamente ai ripari: DPCM dopo DPCM, assistiamo a ordinanze restrittive, con progressiva limitazione dei contatti sociali, chiusura di pubblici esercizi, blocco di attività imprenditoriali ed industriali, confinamento della mobilità personale, su tutto il territorio nazionale, dichiarato – nel giorno della festa della donna – zona rossa. Da quel giorno, la parola d'ordine è: “Io resto a casa”. E da quel giorno parte una ritirata degli Italiani in un luogo più sicuro, ma da troppo tempo dimenticato: le mura domestiche. Conseguenza delle normative sempre più rigide e dalla paura istillata ad ogni ora del giorno da tutte le televisioni. "E' normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti", ci esortava Paolo Borsellino. E il coraggio deve guidarci ad affrontare quelle “reazione etiche”, cioè quei comportamenti che manifestiamo a seguito delle mutate situazioni imposte dai drammatici fatti di questo periodo. Dobbiamo riappropriarci di molti valori dimenticati… Grande o piccola che sia la nostra abitazione, bastano pochi giorni di “clausura” a farci comprendere (e rimpiangere) la bellezza della normalità. Svegliarsi ad un determinato orario, prepararci per uscire, prendere la macchina, lo scooter o i mezzi pubblici. Andare al lavoro quotidiano, entrare in un negozio a fare un acquisto, un regalo. Uscire di casa per fare una passeggiata con un familiare o con un amico. Ripararsi dalla pioggia sotto un portico, sedersi al tavolino di un bar per un caffè in una bella giornata di sole, entrare in una chiesa per un momento di pausa, per una preghiera. Fare una gita in campagna o in montagna, passare una bella giornata al mare. Recarsi al teatro o al cinema, ad una mostra d'arte o ad un convegno culturale. La normalità ci manca subito, come l'aria, ci crea un vuoto: eppure, come l'aria, fino a ieri non ce ne accorgevamo, davamo tutto per scontato… Non tutti hanno una famiglia o una compagnia in casa e tanti soffrono ancora di più la lunghezza interminabile di questi giorni e di queste settimane. Il senso di solitudine può diventare penoso, insopportabile e l'ansia da isolamento, sommata a quella indotta dalle continue notizie allarmanti, può indurre – specie negli anziani - uno stato di impotenza e di depressione che peggiora tutto. Per evitare ciò, sarebbe utile ricorrere a qualche stratagemma, come il “costruirsi” una giornata in casa. Fare uno scadenzario di attività, che riempiano, in qualche modo, le ore: costruire una nuova routine di attività rispetto a prima delle restrizioni. E' infatti importante non trasformare il tempo dell'isolamento in un tempo indefinito e disordinato: svegliarsi, lavarsi e vestirsi, non restare in pigiama, indossare gli abiti comuni. Ad un'ora stabilita fare un po' di ginnastica, ognuno secondo le proprie possibilità fisiche; ascoltare della musica, ciascuno secondo i propri gusti. Rispettare l'orario del pranzo, della colazione e della cena. Riordinare qualcosa della propria casa. Leggere un quotidiano, iniziare un nuovo libro. Guardare un film, un incontro sportivo o un bel documentario di storia e sulla natura. Non ascoltare di continuo, ma massimo due volte al dì – come direbbe il medico – i ripetuti notiziari sulle catastrofiche notizie. Pensare e telefonare a qualche parente o amico, anche dimenticato, che magari sta male, che soffre e che si può facilmente confortare. Le giornate passeranno più rapidamente e, di giorno in giorno, ci arricchiremmo di qualcosa di nuovo. Anche nei periodi più difficili, più bui possiamo aggrapparci ad un valore che può risollevarci: la solidarietà. Sforziamoci a guardare l'altro non come uno strumento qualsiasi, ma come un nostro simile, un aiuto o qualcuno da poter confortare. Il valore della solidarietà necessita di essere incarnato: pensiamo al vicino di casa, al collega di ufficio, all'amico di scuola, ma soprattutto ai medici e agli infermieri che rischiano la contaminazione e l'infezione per salvare i contagiati. Neppure in questo periodo di crisi gli assordanti programmi televisivi ci evitano quei dialoghi incivili. Nei quotidiani, sguaiati talk show, gli uni si sovrappongono agli altri senza neppure ascoltarsi. Nel tempo del rumore, recuperiamo il valore immenso del silenzio. Un silenzio che delimita il nostro spazio di coscienza. Così apprezzato, il silenzio ha un suo valore inestimabile. Uno spazio nostro esclusivo a cui, lentamente, dare un significato diverso attraverso l'ascolto dei pensieri, dei ricordi, dei sentimenti, delle gioie e delle sofferenze. Il silenzio di questi giorni ci consente di guardare al mondo e alla vita con una nuova distanza, dura ma necessaria, per riscoprirne l'intima bellezza e per dare un nuovo senso a tutte le cose. E in questo silenzio possiamo risentire il canto armonioso della primavera come mai prima. La vita scorre nella sua perfezione, nonostante il virus. E solo il silenzio ci permette di apprezzarla appieno. In questi giorni di forzata immobilità in casa, si creano anche le condizioni per un'attenta riflessione sui nostri limiti. Un ripensamento personale sul momento che stiamo vivendo, ma anche, più in generale, sui tempi che solitamente viviamo e sui cambiamenti imposti da questo periodo eccezionale. Il microrganismo con cui ora dobbiamo fare i conti, ci sta insegnando qualcosa di fondamentale: una società come la nostra all'avanguardia nella tecnologia, nella medicina, nelle previsioni del futuro, viene messa in ginocchio, nel caos e nella paura, da un piccolissimo virus, che ci spaventa come un mostro invincibile e ci obbliga a cambiare radicalmente la nostra vita quotidiana. Ma ci consente di fermarci, di riconsiderare la inutile velocità con cui viviamo le nostre “normali” giornate, la crescente frenesia che ci induce ad essere sempre in movimento, sempre connessi, 24 ore su 24. Siamo riportati all'esperienza fondamentale della nostra fragilità, della precarietà. La parola precario ha la stessa radice di “prece”, “preghiera”, che deriva dal latino prex: ottenuto con suppliche, concesso per grazia, incerto, non sicuro. Recuperare il senso di questa precarietà esistenziale può essere angosciante, quando non è elaborata, ma può essere un elemento che ci riporta alla nostra reale condizione, a quello che noi siamo. La nostra vita, così ben organizzata e funzionante, si è bloccata ovunque nel giro di un paio di settimane. Chi poteva immaginarlo? Il mito che ha fondato la fiducia e l'orgoglio della modernità, la fiducia nell'onnipotenza dell'uomo sulla natura, sta crollando. Sta crollando l'idea che si trattasse di una protezione evidente, assicurata, infinita. La delusione è immensa. A seguito di un contatto imprevedibile tra esseri viventi - il pipistrello, il pangolino – e di misteriosa fusione di frammenti di genoma, emerge un nuovo virus che attacca solo l'uomo e tutto va sotto sopra: le economie in calo, l'intero mondo in preda alle sue fragilità. Basta, per superare queste paure, in tempi di quarantena forzata, svaligiare i supermercati? La credenza diffusa che questa epidemia possa togliere beni di consumo primari è falsa quanto perniciosa. Possiamo invece mettere in atto comportamenti virtuosi, che evitino gli sprechi, specie in campo alimentare. Code infinite e assalto ai supermercati: i giornali quotidianamente documentano situazioni del genere con tanto di intervento della polizia: non c'è e non ci sarà nessun blocco agli approvvigionamenti alimentari e di largo consumo. Insegniamo ai nostri figli e nipoti ad apprezzare quello che abbiamo, a non sprecare, a non gettare nulla, ad utilizzare al meglio tutto ciò che possediamo. A condividerlo con gli altri. La condizione che stiamo vivendo può farci perdere la speranza e riempirci di angoscia. Perché siamo davanti a un ospite che di solito ci illudiamo di rimuovere: la morte. Ma è uno spettro che si oggi introduce di continuo nella vita quotidiana. Questo contagio fa emergere in tutti la presenza della morte, che normalmente la società contemporanea tende a ignorare, a rimuovere. È questo che ci disorienta. Ma dovremmo riflettere che, in fondo, questo è il senso fondamentale della fede: la morte non è l'ultima parola sulla vita. Trasmettiamo la speranza e la consapevolezza del senso di ciò che siamo. È vero: nei momenti molto difficili – come durante e dopo una guerra guerreggiata - si forma la nuova identità di un popolo. Di fronte alle maggiori difficoltà emerge l'indole e il temperamento delle persone e dell'intera Nazione: questo potrebbe portare ad una nuova consapevolezza di popolo, verso la formazione di un nuovo senso civico. Adesso, che ringraziamo ogni ora e ogni giorno il lavoro di tutti coloro che sono in corsia per evitare il diffondersi del virus, è tempo di guardare in faccia la realtà, di affrontare il futuro, di battersi per un'esistenza migliore. Tutta l'Italia sta dando grande prova di forza. Lo stereotipo malevolo degli italiani che si sottraggono alle proprie responsabilità è stato sostituito da un vibrante senso civico che ha visto accettare i sacrifici, che ha sviluppato nuove solidarietà. Nei momenti peggiori della storia, gli Italiani si rimboccano le maniche e nelle emergenze arrivano a mettere in pericolo anche la loro stessa vita, come i medici in pensione hanno dimostrato, rispondendo in massa al “richiamo (volontario) alle armi”. Più in generale, il mondo cambierà a causa dell'epidemia. Nulla sarà come prima. E non perché intere popolazioni in quarantena vivono un'esperienza vicina alla guerra. Non potremo tornare alle vecchie abitudini come se niente fosse successo: sarà mutato, in maniera profonda, il comune concetto di libertà. Prima vivevamo in una società globalizzata, che ci aveva insegnato ad avere tutto e subito e, tante volte, a pretenderlo. In realtà, avevamo travisato il concetto di libertà. Dopo aver sconfitto il virus, capiremo che abbiamo imparato molto: la nostra libertà confina con l'altrui libertà. Le nostre libertà sono condizionate dalle regole e da altri valori, che – come la libertà - devono essere salvaguardati. Come quello della salute e del bene della collettività. Ma ancora di più: libertà di adottare un nuovo modello di vita, meno globalizzato, meno frenetico, più attento alla persona, ai suoi valori, alle esigenze di salute del corpo e della mente. Nel nostro Paese, però, nessuno da oltre sette decenni ha messo in discussione la libertà di pensiero, la libertà di parola. Com'è invece avvenuto in Cina ancora nelle scorse settimane. Speriamo, dopo l'epidemia, di poter aiutare quei popoli nei quali – come in Cina - si reclama l'abolizione delle leggi che impediscono la libertà di pensiero. E' stato proposto che il 6 febbraio - data della morte di Li Wenliang – venga istituita la "Giornata della libertà di parola". Per aiutare davvero i cinesi, non serve far la corsa ad accaparrarsi accordi commerciali o industriali: aiutiamoli e sosteniamoli invece – dopo la pandemia - in questa grande lotta di libertà. di Carlo Gaudio (Direttore del Dipartimento di Scienza Cliniche Internistiche, Anestesiologiche e Cardiovascolari Sapienza Università di Roma)