il ritorno della Roma papalina
L'attualità e l'assenza di Gaetanaccio
All’Eliseo – fino al 10 marzo – va in scena la “Commedia di Gaetanaccio”, scritta dall’immenso Gigi Magni. A distanza di quarant’anni esatti dalla memorabile interpretazione di Gigi Proietti, questo classico della tradizione popolare romana urla la sua voglia di essere tramandato, il suo bisogno di non essere dimenticato, magari non ricorrendo alla tradizione orale o agli aedi; non conta il device in fondo, ma conta che i ragazzi di oggi sappiano che Gaetanaccio è uno dei nostri capisaldi culturali assieme a Meo Patacca o a Rugantino e non il soprannome di uno dei calciatori di Lega Pro che fa video trash su Instagram per arrotondare. Un minimo di contesto va dato, siamo nella Roma pontificia di fine 700' e Gaetanaccio, all’anagrafe Gaetano Santangelo, è un paino del Rione Borgo, che a causa della condizione misera della famiglia di provenienza, si industria facendo leva sui propri talenti: arguzia e voglia di rugare. Diventa burattinaio e col il suo castello ambulante offre la propria arte al popolo romano, proponendo proprio Rugantino tra i suoi burattini preferiti. Saltellando sul confine davvero labile tra piece teatrale e realtà storica, ci ritroviamo nel prologo della commedia del Maestro Magni, che recita:” Vengono soppresse tutte quelle attività culturali le quali che, quando va bene, non servono a gnente”. Ma in che anno siamo? Capiamo come sia attuale questo prologo? Oggi che a Roma nostra i teatri chiudono nell’indifferenza ironica e beffarda di pubblico ma soprattutto delle istituzioni? Il potere pontificio censura ogni tipo di rappresentazione teatrale, e Gaetanaccio si ritrova a patire la fame, come tanti altri attori e musici come lui. Da questo momento in poi il confine tra commedia e realtà, tra burattini e burattinai e padroni e servitore cade. Si intrecciano le tematiche della fame e dei bisogni concreti e degli amori più puri e alti, in un valzer tra vita e morte, tra purezza e compromesso, tra ambivalenze e certezze. La Roma del regime paternalistico pontificio, con il carico di contraddizioni non risolvibile annesso, fa da perfetto sfondo. E come dimenticare l’uso di una lingua scomparsa e le splendide melodie che scaldano il cuore di ogni buon romano? Come allora oggi siamo in un momento buio a livello culturale della città; l’oscurantismo non deriva da regimi politici, ma dalla transizione che non porterà mai alla fusione tra un portato storico e spirituale millenario e un mondo digitalizzato. La conoscenza non viene assunto come valore ma come ostacolo, le tradizioni sono inutile folklore, il teatro muffosa mediazione di emozioni e conoscenza che ci separa dal tutto e subito dei nostri onnipresenti schermi/tastierine. Ma se questo spettacolo conserva in sé tematiche che saranno attuali finchè le dinamiche umane condizioneranno gli eventi del mondo, dobbiamo constatare una dolorosa assenza. Quel sacro fuoco insito nel burattinaio, che stremato dalla fame, dall’amore, con i suoi limiti, contraddizioni, talenti, meriti, demeriti, costretto ad inventarsi una vita per sperare di sopravvivere, ai bivi esistenziali, riesce a confermare ogni volta la sua adesione alla vita. Lottando, ballando in un valzer che ti cambia e che spesso ti piega, ma che non ti spegne mai. Se solo avessimo 1/100 del fuoco del nostro caro burattinaio da dedicare alla nostra amata città, di sicuro potremmo sperare di ritornare a cieli tersi e di proiettare la sua eternità persino su questo teatrino fatto di burattini e burattinai.