l'inchiesta
Roma, droga e stanza delle torture. Presi i narcos de La Rustica
«Quelli so’ brutti forti compa’, sono andato da questi prima che prendono la pistola e sparano». Era Massimo Carmiati a parlare con Riccardo Brugia riferendosi all’organizzazione criminale, dedida allo spaccio di droga a La Rustica, nell’aprile del 2013. La frase è conternuta nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Tamara De Amicis, che ha portato a 14 arresti, sei in carcere e 8 agli arrresti domiciliari, accusati, a seconda delle posizioni processuali, di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, cessione e detenzione ai fini di spaccio, tentato omicidio, lesioni, tortura, sequestro di persona, estorsione e incendio, nonché detenzione illegale e commercio di armi da sparo.
L’indagine, condotta dai carabinieri del Comando provinciale, è iniziata in seguito al ferimento di un uomo, avvenuto il 17 novembre 2017, raggiunto da più colpi d’arma da fuoco alle gambe mentre si trovava in un complesso residenziale a La Rustica. Le indagini hanno permesso ai carabinieri di risalire «a Daniele Carlomosti (detto la bestia o il gigante) e di ricondurre» l’accaduto «agli attriti che erano sorti tra quest’ultimo e il fratello Simone per la gestione delle attività illecite», si legge nel provvedimento. Contrasti che, secondo quanto ricostruiscono gli investigatori, sono sfociati «in ulteriori atti intimidatori, quali gambizzazioni, incendi, esplosione di colpi d’arma da fuoco contro appartamenti e veicoli, e anche nel tentato omicidio di Simone quando Daniele gli sparava contro, dal balcone della sua abitazione, più colpi d’arma da fuoco con una pistola calibro 7,65 non riuscendo nell’intento di ucciderlo solo per un caso fortuito».
L’organizzazione, secondo gli inquirenti della Dda capitolina, gestivano, soprattutto il traffico di hashish, pari a decine e decine di chili alla volta. Secondo l’accusa, la violenza era mirata a conquistare l’egemonia nello spaccio nel quadrante della città. Non solo. Il gruppo criminale «operava con funzioni di raccordo tra i fornitori del narcotico e gli acquirenti, dediti alla sua commercializzazione nell’hinterland romano, coordinando le attività illecite dei sodali dal suo domicilio».
Secondo l’accusa, al vertice dell’organizzazione c’erano anche figure femminili «ovvero la zia e la moglie di Daniele Carlomosti. Quest’ultima - secondo la ricostruzione dei carabinieri - si occupava principalmente di gestire problematiche logistiche quali ad esempio la custodia delle chiavi dei locali dove venivano stoccati gli ingenti quantitativi di droga prima di essere smistati».
Per gli investigatori, estremamente significativo, dal punto di vista del «prestigio criminale» attribuito a Carlomosti, il commento effettuato dallo stesso in merito al fatto che neanche Totò Riina si sarebbe potuto permettere di rubargli 10 chili di "fumo", in conseguenza del quale esprimeva la necessità di uccidere il responsabile e salvaguardare, appunto, la considerazione del sodalizio criminale, sia all'interno del proprio quartiere/borgata, che negli ambiti criminali della città. «Daniele:...Roberto oggi deve morì, perché a me dieci chili di fumo non me li leva neanche Totò Riina e tanto meno un pezzo di merda come lui. Oggi Roberto deve morire crivellato...».