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Duro colpo alla prima ’ndrina tutta romana: 77 arresti. Gestivano bar e pescherie, gli affari nella Capitale
«Sei arrivato a Roma, al centro della Capitale, hai aperto un bel locale, sei come il Papa». Non usano mezzi termini alcuni degli indagati della maxi inchiesta della Dda che ha portato all’arresto di 77 persone affiliate alla ’ndrangheta, accusate, a seconda delle posizioni processuali, di associazione mafiosa, detenzione di armi, spaccio, estorsione aggravata, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, peculato e truffa ai danni dello Stato, per fotografare le loro «conquiste». La città eterna, infatti, secondo gli inquirenti, era diventata da anni la piazza per «ripulire», tramite attività commerciali, tutti i proventi illeciti della criminalità calabrese, ed era diventata addirittura una «lavatrice» sempre pronta a riciclare montagne di soldi grazie a decine di affiliati. Con «l’autorizzazione» dei boss calabresi.
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Lo schema, secondo gli inquirenti romani e calabresi, si ripeteva, sempre uguale, con una serie vorticosa di investimenti in bar, pescherie, piccoli supermercati, soprattutto situati in zone periferiche dell’area nord della Capitale. I legami con la «casa madre», quella calabrese, venivano tenuti con grande riserbo: le riunioni tra i boss di Roma e i vertici della ’ndrina calabrese non dovevano dare nell’occhio e per questo si sarebbero svolti anche in occasione di matrimoni o funerali. Gli indagati agivano, in base alle indagini dei pm, in autonomia, ma si affidavano spesso alla «mala romana» per intimidire o riscuotere crediti.
L’ipotesi è che «sul territorio della Capitale si sia riprodotta una struttura criminale non consistente semplicemente nel fatto che una serie di soggetti calabresi abbiano iniziato a commettere reati nella città», ma, secondo chi indaga, «i soggetti in questione sono risultati operare secondo tradizioni di ’ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati tipici della criminalità della terra d’origine e trapiantati a Roma dove la ’ndrangheta si è trasferita con la propria capacità di intimidazione». L’organizzazione, in base alle indagani andate avanti per anni, si sarebbe fondata su una ’ndrina «locale», che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. È quanto emerge dall’indagine della Dda della Capitale e Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò che ha portato a 43 arresti a Roma. Al vertice dell’organizzazione criminale ci sarebbero Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ’ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le indagini hanno evidenziato come fino all’estate del 2015 non ci fosse una «locale» attiva nella Capitale. Nell’estate di 7 anni fa Carzo avrebbe poi ricevuto dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria l’autorizzazione per costituire un struttura «locale» che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ’ndrangheta. Il gruppo operava su diversi quartieri di Roma, soprattutto nelle zone di Roma nord, tra i quali Primavalle, con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.
Il boss Vincenzo Alvaro, scrivono gli inquirenti in migliaia di pagine di ordinanza di custodia cautelare, sarebbe stato di fatto il manager designato per operare su Roma e sui cui aveva competenze criminali di primo piano. A lui sarebbero spettati «compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere, degli obiettivi da perseguire e delle vittime da colpire, impartisce direttive alle quali gli altri associati danno attuazione». L’operazione è stata messa a segno nella Capitale dalla direzione investigativa antimafia e dalla direzione distrettuale antimafia, coordinate dalla procura: ha portato a 43 arresti a Roma, mentre altre 34 persone sono state arrestate nel corso di un’indagine della procura di Reggio Calabria. Tra di loro c’è il sindaco di Cosoleto, Antonino Gioffré.
Un «elemento di riflessione riguarda le minacce di Carzo contro il giornalista Klaus Davi - scrive il gip Sturzo - reo di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi e tra questi proprio Carzo e Alvaro, mettendo in pericolo la loro copertura». Grande apprezzamento del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, «per l’imponente operazione che ha consentito di sgominare una locale di ’ndrina operante sul territorio della Capitale». Il prefetto «ringrazia gli uomini della Dia e delle forze dell’ordine ed i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma che, in coordinamento con i colleghi di Reggio Calabria, hanno segnato un altro importante punto nella lotta alla criminalità organizzata, ribadendo il forte impegno delle Istituzioni nel contrasto alle consorterie malavitose».