Intercettazioni choc
"Una carovana pronta a fare una guerra", così la 'ndrangheta aveva messo le mani su Roma. Intercettazioni choc
«Una carovana pronta a fare una guerra». «Ma se noi siamo qua a Roma...sì che siamo assai pure qua...non è che...volta e gira, siamo qualche 100 di noi, altri in questa zona...nel Lazio». Sono solo alcune delle intercettazioni degli arrestati contenute nell’ordinanza nei confronti di uno dei boss, Vincenzo Alvaro, ascoltato dagli investigatori durante anni di accertamenti e che farebbero riferimento alla presunta rete criminale sul territorio da parte degli indagati.
Alvaro «concorre nella commissione di alcuni delitti, soprattutto in materia di intestazioni fittizie di attività commerciali, settore nel quale è un autentico punto di riferimento non solo per tutti gli altri sodali, ma anche per soggetti appartenenti ad altre cosche e che intendono investire sul territorio della Capitale» scrive il gip. «Dietro di me c’è una nave», diceva inoltre un altro degli indagati, spalleggiandosi delle intime amicizie e frequentazioni con Domenico Alvaro (già condannato definitivo per 416 bis), impedendo alle vittime così di denunciare alle forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni». «Non è che io devo comandare qua a Roma...a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono...questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi...mano mozza...li conosciamo tutti...a Torvajanica...al Circeo...sono amico di tutti e mi rispetto con tutti», riporta il gip nelle carte. Non solo. «Siamo di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso fino al settembre 2020 - si legge nell’ordinanza - e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».
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«Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto». Così parlavano di sè inoltre gli arrestati nell’ambito dell’operazione che ha portato alla scoperta, a Roma, del gruppo di ’ndranghetisti che, secondo chi indaga, rappresentava una diretta «propaggine» della ’ndrina calabrese cui faceva riferimento e dalla quale era stato autorizzato ad operare nella città eterna. L’ok al «lavoro» a Roma era arrivato direttamente dalla «casa madre» di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Nelle migliaia di carte si fa riferimento anche alle armi che l’organizzazione avrebbe avuto a disposizione. Nell’inchiesta spunta anche il nome di Silvio Berlusconi, pronunciato nelle intercettazioni da alcuni indagati. Il 17 dicembre 2017, infatti, due indagati stavano guardando la televisione quando, a un certo punto, compariva Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, «il quale stava presentando il nuovo simbolo del partito, l’albero della libertà. Vedendo tali immagini, immediatamente Giuseppe P. faceva un collegamento con l’albero della scienza che - per come emerge dalle dichiarazioni di diversi collaboratori, alcune delle quali richiamate anche in sentenze ormai definitive - costituisce un simbolo della ‘ndrangheta si legge nel provvedimento restrittivo del gip - e nel fare tale collegamento Giuseppe P. pronunciava alcune affermazioni autoaccusatorie, sostanzialmente definendosi appartenente alla ‘ndrangheta. Infatti, innanzitutto diceva» all’interlocutore «che se lui o uno dei suoi avessero fatto un’intervista come quella di Berlusconi, avendo accanto quell’albero, avrebbero preso dieci anni di galera».
Nelle carte dell’inchiesta emerge anche che alcuni del clan calabrese venivano definiti i «russi». E alcuni di loro sono stati intercettati mentre minacciavano alcuni affiliati. «Io ti taglio un orecchio, lo dissi davanti a tua moglie...ti taglio le gambe». non solo: «[…]Non giocare con me che io sono l'uomo più lavoratore, più onesto che esiste su questa terra...mi rompo il culo...ma non appartieni alla mia famiglia...non la deve toccare nessuno...se sbagliano io vengo e gli taglio la testa, pure a mio figlio...lo metto per terra...il sangue lo faccio cadere per terra...ma che tu vai a rompere i coglioni alla famiglia...non è corretto...e non è corretto questo».
Infine l’indagato Giovanni P., quando nel 2010 morì suo suocero, «ci disse - si legge nell’ordinanza - che quest’ultimo aveva consentito il raggiungimento della pax mafiosa dopo sette anni di guerra di mafia e per tale ragione avrebbe meritato il Nobel per la pace come Bill Clinton».