il processo al clan
"Pensavo che Vittorio Casamonica fosse il Papa". Le reticenze dei musicisti del funerale-show
L’omertà può portare addirittura alla blasfemia. A settembre il tribunale di Roma ha inflitto condanne per 400 anni di carcere a 44 imputati affiliati al clan Casamonica, riconoscendo l’associazione mafiosa. Nonostante ciò, i romani continuano ad aver paura dei Casamonica. Lo dimostra il fatto che uno dei musicisti che suonò la canzone del film «Il padrino» ai funerali di Vittorio Casamonica, l’altro ieri è arrivato al punto di dire ai giudici: «Pensavo che quello ritratto nei manifesti fosse papa Bergoglio».
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Avevano fatto il giro del mondo le foto della carrozza con finiture d’oro trainata dai cavalli neri, dei petali di rosa lanciati dall’elicottero e dei manifesti funebri affissi alla chiesa Don Bosco con su scritto «Vittorio Casamonica Re di Roma» e «Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso». Era il 20 agosto 2015 e la Capitale si fece trovare impreparata di fronte a questa sfrontata ostentazione di potere del clan familiare di origine sinti, arrivato nella Capitale dall’Abruzzo e dal Molise nei primi anni ’60. Quel funerale che celebrava Vittorio Casamonica, come se fosse un boss, fece da input all’indagine «Gramigna» dei carabinieri che, lo scorso 20 settembre, ha portato la decima sezione penale del Tribunale di Roma alla condanna ad oltre 400 anni di carcere dei 44 imputati - riconducibili al ramo della famiglia residente a Porta Furba - con accuse che vanno (a vario titolo) dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, l’usura e la detenzione illegale di armi. Il 16 giugno 2020, nell’operazione «Noi proteggiamo Roma», vennero arrestate altre 20 persone affiliate al gruppo dei Casamonica che esercitava il suo potere nella zona della Romanina.
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Il processo relativo a questo secondo filone è iniziato giovedì. I primi testimoni citati dalla Procura sono stati i componenti della banda musicale chiamata a suonare al funerale-show. Francesco Procopio, ex carabiniere e capo della banda musicale che prende finanziamenti dalla Regione Lazio per i progetti destinati ad assistere i bambini con disabilità, ha in qualche modo ritrattato le dichiarazioni che aveva fatto ai carabinieri a febbraio 2016. All’epoca aveva detto che non era d’accordo ad eseguire brani insoliti per delle esequie, come la colonna sonora del film «Il Padrino», «My way» di Sinatra e «Così parlò Zarathustra», ma che aveva «accettato quanto imposto per evitare problemi» perché si sentiva «responsabile verso gli altri membri della banda», tanto da temere per la sua incolumità.
Sul banco dei testimoni, invece, ha corretto il tiro: «Non ci hanno minacciato, ci incitavano a suonare e io sentivo le pressione. C’era gente ammassata intorno a noi e rischiavamo di prendere lo strumento nei denti. Io non sapevo nemmeno di chi fosse il funerale. Quando ho visto i manifesti sulla chiesa, credevo che quello vestito di bianco fosse Papa Bergoglio». «Le ricordo che lei ha l’obbligo di dire la verità», ha ammonito il presidente del Tribunale. Pure l’altro musicista, Antonio Farallo: «Ci hanno chiesto quei brani con un tono deciso, ma non perentorio. Non era un’imposizione». Ai carabinieri, a marzo 2016, aveva detto: «I parenti hanno usato un tono perentorio per obbligarci a suonare i brani imposti».
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