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Roma, parto in cella a Rebibbia. Non a Kabul

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Chissà se nelle carceri talebane c’è più rispetto, ma la storia del parto in una cella di Rebibbia davvero non si può sentire. Perché qui il tema non è il solito che riguarda l’etnia rom della giovane madre la polemica sui “trucchi” per non farsi arrestare, bensì se può essere considerato normale il parto proprio nella cella.

Non in infermeria, non in reparto attrezzato, bensì proprio nel luogo di detenzione. Ad assistere la donna che doveva mettere al mondo una creatura, la sua compagna di prigionia, mica un infermiere.

Una vicenda che ruota attorno al pianeta carcere e che dovrebbe far domandare se c’è qualcuno che sia preposto ad un parto che può verificarsi in un determinata momento se la detenuta è in stato di gravidanza come nel caso della giovane Amra.

Il ministro guardasigilli, la Cartabia, ha comunque preso l’iniziativa di inviare ispettori da via Arenula al carcere romano per acquisire gli elementi necessari a capire che diamine sia successo. Tra le cose che vanno chiarite c’è anche la minaccia di aborto che c’era stata nei giorni scorsi, all’ospedale Sandro Pertini, dove la donna era stata ricoverata. Ma da lì, dopo cinque giorni di dgenza, è tornata a Rebibbia, nella sua cella. E proprio lì ha partorito. Risultato: il medico penitenziario, allertato dagli agenti, è arrivato solo dopo che la bambina era venuta al mondo.

Protesta il sindacato della polizia penitenziaria: "Vergogna, tardivo l'invio degli ispettori". "Quanto è accaduto in una cella del carcere romano con la detenuta che ha partorito assistita dai sanitari dell'istituto e dal personale di polizia penitenziaria dovrebbe far vergognare la Ministra di Grazia e Giustizia Cartabia, prima di tutto come donna. Inviare gli ispettori ministeriali dopo quanto è successo è tardivo, inutile e non può servire a salvare la coscienza". Lo sostiene Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp.

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