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"Hanno cercato di uccidere Mario una seconda volta", lo sfogo della vedova Cerciello

Valeria Di Corrado
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«La verità era sotto gli occhi di tutti, nel corpo martoriato di Mario, ma hanno cercato in tutti modi di ribaltarla, di rimestare nel suo sangue, di ucciderlo una seconda volta. Hanno violentato l’Arma e hanno provato a spogliare Mario, ma alla fine lui si è rivestito della sua divisa». Oltre all'inconsolabile sofferenza per aver perso per sempre l'amore della sua vita, l'uomo con il quale era sposata da appena 43 giorni e che l'avrebbe resa madre, Rosa Maria Esilio ha dovuto sopportare, da quel maledetto 26 luglio 2019 fino al giorno della sentenza, le insinuazioni e i dubbi di chi ha cercato in tutti i modi di gettare ombre sull’operato di suo marito. Il vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega è stato ucciso a 35 anni, mentre era regolarmente in servizio, da Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, due giovani turisti statunitensi che volevano trascorrere le loro vacanze romane alla ricerca dello sballo: droga, alcol e armi.

Nonostante venissero smentite ogni volta dai riscontri investigativi, queste ombre alimentavano – grazie a certa stampa – il circo mediatico italiano, e ancor di più quello americano, che non aspettava altro che scagionare i suoi «good guys» (con la faccia da «bravi ragazzi»). Ultimamente il dietrologismo è diventato un virus dilagante nel nostro Paese: si cerca a tutti i costi una verità alternativa, anche quando la verità è semplice e lampante. In questo atroce omicidio – con un assassino reo confesso, un testimone oculare e un'arma del delitto trovata subito – lo sforzo di ribaltare la realtà è arrivato al punto tale di confondere vittima e carnefici, accusando gratuitamente il carabiniere ucciso di avere rapporti poco chiari con presunti informatori-spacciatori o di essere «colpevole» di ingenuità. Forse, in questa ricerca di una versione dei fatti diversa a tutti i costi, ha giocato un peso la nazionalità degli imputati, lo storico atteggiamento di sudditanza psicologica verso gli americani, che però non ha toccato i giudici popolari e togati che lo scorso 5 maggio hanno condannato all’ergastolo i due ventenni di San Francisco.

Quando parla del suo Mario, Rosa Maria non riesce a trattenere le lacrime. Il lutto lo porta negli occhi, prima ancora che nei vestiti neri che indossa. Uno sguardo colmo di dolore, di quel dolore che non si può descrivere, che lacera dentro e fa implodere, che non troverà mai consolazione né spiegazione, che segna una netta demarcazione tra il prima e il dopo, tra la felicità e la sopravvivenza. Rosa Maria non è la stessa della foto in cui sorridente e raggiante, vestita di bianco, mostrava la fede nuziale insieme al suo sposo in uniforme. I suoi occhi sono spenti, come se la sua energia vitale si trovasse ora in una stella lontana anni luce. Sembra fragile come un cristallo, che può infrangersi anche solo per una parola o un ricordo: ogni giorno si sveglia e inizia l'incubo di vivere una nuova giornata senza Mario. L'abbiamo incontrata in via Cossa, a Prati, nel punto esatto in cui Cerciello è stato assassinato con 11 coltellate e dove ora amici, colleghi e passanti si fermano a lasciare un fiore o a recitare una preghiera. «Qui è stato ucciso quel carabiniere», commenta tra sé un anziano in bicicletta, vicino al piccolo altare.


I genitori di Marco Vannini hanno detto che la condanna all'ergastolo l'hanno avuta loro: vivere una vita senza loro figlio.
«È così. Questa non è una vita, è una sopravvivenza. Resti perché ti è stato detto di rimanere. Affrontare questo anno e 9 mesi è stato un supplizio. Un giorno mi sono dovuta alzare e mi sono detta: "devo continuare quello che Mario mi ha insegnato". Lui era un tipo che non si abbatteva mai. La sua giornata non era di 24 ore, ma almeno di 72. E quindi ho capito che avrebbe voluto vedermi combattere per quella che era la verità. Io ascoltavo, leggevo, vedevo... ed era davvero inconcepibile».
Si aspettava questa sentenza? L’ergastolo per entrambi gli imputati?
«Sì, io ci ho sempre creduto. Credo sia la pena giusta per l'assassinio che hanno commesso. In questo lungo processo si sono esaminati tutti gli aspetti e Mario è emerso per quello che era. Credo che la sentenza più giusta non poteva essere che questa. È una pena molto severa, me ne rendo conto, per la nostra giurisprudenza è la pena massima per quello che è il gesto più crudele: togliere una vita. Anche se questa sentenza non lo riporterà in vita».
Cosa ha provato quando la presidente della Corte d'assise ha letto il verdetto?
«Avrei voluto soltanto riavere Mario. In quel momento pensavo: è finita, adesso puoi tornare a casa. In realtà poi non è così. Ti senti come svuotata. Credo che la sua anima si sia liberata, perché ha sofferto veramente tanto. Io che lo conosco so che queste forzature, questo ribaltamento della verità, è stato molto doloroso per lui. Il fatto che si sia rimesso a posto il suo onore, penso che ora gli consenta di liberare la sua anima da questa terra».
Durante le indagini, e poi durante il processo, c'è stato il tentativo di gettare ombre e misteri sull'operato di suo marito e sulla dinamica dei fatti.
«Ogni volta che ci provavano usciva fuori quello che era Mario: una persona pulita che sapeva fare bene il suo lavoro, tanto che anche l'avvocato della difesa nella sua arringa conclusiva ha dovuto ammetterlo. Anche se per un anno e nove mesi ci hanno provato. È stata veramente una sofferenza assistere a questo. E non mi riferisco ai legali, perché capisco il sacrosanto diritto alla difesa.
Secondo lei qual è la ragione per la quale alcuni quotidiani hanno cercato di rincorrere queste teorie complottiste?
«Mi rendo conto che è stato un caso di un peso mediatico non indifferente. Non so perché lo abbiano fatto, forse perché siamo più abituati a cercare il marcio nelle cose o nelle persone. Non vogliamo guardare con purezza ciò che abbiamo di fronte». 
Alla fine la realtà era molto più semplice di quello che si voleva credere.
«Mario ha tracciato una linea retta tra quelli che erano tutti i dubbi e quello che era realmente successo. Ha lasciato le tracce, perché il suo operato parla, il suo corpo parla per lui; basta volerlo guardare e ascoltare. Mario ci ha dato tutte le risposte, ce le ha date lui più di chiunque altro. Bisogna solo avere la lucidità per vederle e penso che Dio ci abbia dato la luce per farcele vedere. È stato uno shock per tutti quanti: per l'Arma dei carabinieri, per le persone comuni. Mario era il figlio di tutti, il carabiniere di tutti». 
Era molto amato, chiunque ha avuto a che fare con lui ne conserva un bel ricordo.
«Sì, era di buon ascolto. La vita la prendeva di petto, non aveva paura di niente. Trascinava tutti con sé. Era di un'umanità senza confini. Da 10 anni era volontario dei cavalieri dell’Ordine di Malta: ogni venerdì andavamo insieme alla stazione Termini a portare da mangiare ai senzatetto e poi facevano dei pellegrinaggi. Donava sempre ed era coraggioso. Coraggioso è chi dà coraggio».
Lo è stato pure quella sera.
«Penso sia l'atto più crudele che possa fare una persona: ucciderlo così in mezzo alla strada, scannato come un vitello. Lo ha disegnato come una montagna. Ma non è così. Chiunque conosca Mario non ha mai avuto timore o paura di lui, era un gigante buono». 
Secondo lei sarebbe cambiato qualcosa, si sarebbe potuto salvare se avesse avuto con sé la pistola?
«Non avrebbe avuto il tempo di usarla: è stato accoltellato in 30 secondi. Se si conta fino a 30 e si pensa di far penetrare una lama di 18 centimetri, toglierla, girarla, farla ripenetrare, per 11 volte. Qualsiasi corpo sarebbe morto, magari più lentamente, ma comunque sarebbe morto. Penso che chiunque si fosse trovato al posto di Mario avrebbe fatto la stessa fine. Lo ha detto anche Brugiatelli: "se non ci fosse stato Mario, ci sarei stato io"». 
Come tante altre sere suo marito doveva mimetizzarsi tra i ragazzi che frequentano Trastevere per fermare piccoli spacciatori e identificarli. Invece se n’è trovato di fronte uno con una lama di 18 centimetri, pronto a uccidere senza esitazione.
«Mi creda io non lo auguro a nessuno. Non l'ho neanche mai pensato che si potevano invertire le parti, per esempio con il suo collega Varriale. Non ho mai detto: perché a me? Le risposte stanno nel suo corpo martoriato, che io ho dovuto vedere. Ed è l'ultima cosa che avrei voluto vedere». 
Chi sceglie di fare il carabiniere sa che va incontro a dei rischi, ma una situazione del genere era preventivabile?
«Del senno di poi sono piene le fosse. Mario comunque era a conoscenza dei rischi che correva, al punto da essere attento e scrupoloso in tutto quello che faceva. Non lo faceva da due giorni quel tipo di servizio. Penso che è l'unico che morto così. È l'atto più crudele della storia dell'Arma dei carabinieri: 11 coltellate, tutti organi vitali. Poteva salvarsi? Che avrei dato... Ogni tanto passo davanti all'ospedale e penso che "darei per venirti a trovare qui, anche senza un braccio o senza una gamba, in qualsiasi condizione". Perché so che almeno gli avrei potuto parlare. Ora lo facciamo in forma diversa. Stavamo insieme da così tanti anni che non ricordo una vita prima di lui. Non tutti riescono a incontrare l'amore della loro vita. Mario era il mio grande amore e sono riusciti a separarci». 
È stato un processo lungo, in cui non si è persa un'udienza.
«Sì, è stato lungo e doloroso: per me sono stati 43 funerali, oltre a quello di Stato. Poi c'è la simbologia: 43 udienze e 43 giorni di matrimonio, 13 giugno il nostro matrimonio, 13 luglio è il suo compleanno, è morto il 26 (13 più 13). Fino ad arrivare al giorno della sentenza, il 5 maggio, che il giorno in cui mi ha chiesto di sposarlo. Quindi per me è stato distruttivo. Tre anni prima stavamo a Lourdes, tre anni dopo mi trovavo in un'aula di tribunale, un luogo brutto e freddo, che sembrava l'ospedale. Avevo la stessa impressione: sto andando lì, non so che mi aspetta, non voglio pensare, può succedere di tutto. Solo che prima, mentre andavo in ospedale, non riuscivo a capacitarmi di ciò che sarebbe potuto succedere, invece durante il processo già era successo. Prima c'era la morte fisica, dopo ci sarebbe stata la morte morale (a cui lui credeva), se non ci fosse stata questa sentenza». 
Secondo lei si sarebbe andato così a fondo se come imputati, invece che due americani, ci fossero stati due ragazzi di un'altra nazionalità?
«Credo che un po' si è subita quella differenza di cultura, ma non penso possa essere considerato un privilegio rispetto a qualcun altro, perché la giustizia è una. Io non ho mai parlato in tutto questo tempo, perché c'è solo un luogo dove si può parlare di giustizia e quel luogo è il tribunale. Anche se l'Arma dei carabinieri è stata violentata, sia dalla perdita di Mario (un uomo che ha pagato il prezzo più alto della sua fedeltà allo Stato), sia violentata per tutte le dietrologie». 
Eppure quando ci sono di mezzo gli americani, si cerca sempre di mettere in dubbio il lavoro di magistrati e investigatori italiani: è stato usato anche il paragone con Amanda Knox.
«Io non ho mai dubitato un secondo del lavoro fatto, e non posso pensare che chi sta dall'altra parte possa avere dubbi. Anche se siamo molto diversi. La nostra storia, mia e di Mario, è fatta di tanti sacrifici. Mario ha perso il padre appena entrato nell'Arma, a 24 anni, e si è fatto da solo. Abbiamo sempre messo da parte le nostre soddisfazioni personali per aiutare gli altri. È una costruzione fatta negli anni, sono valori imprescindibili nelle nostre vite. Mario prima di sposare me, ha sposato l'Arma dei carabinieri. L'essere diversi culturalmente con questi giovani uomini, non toglie la micidialità di quello che hanno fatto. Io provo compassione, pietà. Abbiamo dovuto capire prima cos'è la morte, per capire cos'è la vita. E a volte penso che loro non abbiano capito niente del valore della vita».
Secondo lei, oggi, hanno compreso la gravità di quello che hanno fatto?
«Ho ricevuto solo una lettera dalla madre, ma non dagli assassini. Una lettera che peraltro assume un significato di cordoglio, non di richiesta di perdono. In qualche intervista hanno solo manifestato un dispiacere per l'accaduto, senza mai mostrarsi sinceramente pentiti. Tra l'altro l'unico perdono lo dovrebbero chiedere a Mario. Voleva laurearsi e diventare maresciallo dei carabinieri, voleva avere dei figli e invece sono morti con lui. Io non li ho potuti vedere, invece lui li può vedere. Aveva tanti progetti. Ma soprattutto, se possono avere coscienza di quello che hanno fatto, il perdono devono chiederlo a loro stessi. Qui non c'è nessuna vittoria. Tutti abbiamo perso, è un dolore troppo grande. Nessun trofeo. Mario non torna a casa e mi manca come l'aria. È tutto fermo com'era. Non ci sono sogni diversi da quelli che avevamo insieme. L'ultima sua promessa è stata: "Domenica ti porto al mare"».
Cosa l'ha ferita di più in questi mesi?
«A proposito della loro differenza culturale, io ho ricevuto dei messaggi su Facebook da alcuni americani, due giorni dopo che è morto Mario: "Tuo marito, feccia della società, ha avuto quello che meritava". A cadenza giornaliera ne ricevevo altri. Non so se erano amici loro. Ce le siamo prese tutte le croci». 
Si è cercato anche di far passare Elder per pazzo e di sostenere che la sua era legittima difesa.
«Nove periti hanno stabilito che era capace di intendere e di volere, più di quello. È emerso tutto dal processo. La ricerca forsennata di qualcosa che non andasse, paradossalmente ha dato spazio alla chiarezza. Sono contenta che Mario con questa sentenza abbia riacquisito la sua integrità, quello che era il suo valore».
Teme che ora possano tornare negli Usa e ottenere uno sconto di pena?
«Noi abbiamo sempre cercato di fare le cose nella maniera più giusta possibile. Spero che loro vogliano fare lo stesso, prendendosi le responsabilità di ciò che hanno fatto. Capire qual è il peso di una vita». 
Come è stato possibile che abbiano potuto portare un coltello in valigia su un aereo?
«La risposta l'hanno data i loro cellulari: i selfie e le foto con droghe e armi di tutti i tipi». 
Come sono arrivati a questo punto di violenza? Dipende dai genitori?
«Essendo giovani uomini, la loro personalità era già definita a 18 anni. Non credo ci sia da dare la colpa agli altri, se non a se stessi. Noi abbiamo lavorato la terra. Ogni mattina ci alzavamo per andare al lavoro. Forse i loro obiettivi erano diversi dai nostri. Non c'è da giudicarli, né da giustificarli per questo. Il fatto è che hanno ucciso una persona. Vedere le proprie mani insanguinate e correre a lavarsi, e dormire nel sangue di Mario. Non credo dipenda da quello che c'è prima e dagli obiettivi di dopo. Né c'è da dire sono bravi o cattivi ragazzi. Stiamo parlando del massimo della crudeltà umana. Scannare così una persona che stava facendo il suo lavoro. Tutta la lucidità del gesto si riscontra nel martirio del suo cadavere. E poi andare ad analizzare, mettere le mani nel suo sangue, continuare... Mario ha tirato la sua linea retta». 
La telefonata al 112, con il dramma vissuto da Varriale che chiama i soccorsi e nel frattempo cerca di salvare Cerciello, ha riportato i fatti alla loro cruda realtà.
«Io Mario me lo sento addosso. È come se le avessero date a me quelle coltellate, è la stessa cosa. La sua voce in quelle registrazioni la sento sulla pelle. Lui ha dato la vita, il massimo che poteva dare. So che questo è solo il primo grado di giudizio, che c'è l'appello. Però è stata messa la prima pietra, la pietra angolare, quella che sostiene tutto il palazzo».
Varriale lo sente ogni tanto?
«Lui è l'ultima persona che ha visto Mario. Sentir morire tra le tue braccia, oltre che un collega, un amico, un compagno di viaggio, un maestro... I ragazzi della caserma mangiavano sempre a casa nostra, li avevo adottati. E so ciò che provano. Perché non c'è solo il mio dolore da moglie. C'è il dolore della mamma, del fratello, dell'amico, dei miei genitori, del conoscente... chiunque ha passato 5 minuti con Mario ha provato dolore. E io ringrazio chiunque lo omaggi e lo ricordi. Mi hanno scritto dal Madagascar, dove siamo stati in viaggio di nozze. È rimasto nei cuori anche della gente del posto».

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