Nell'ombra fino alla morte. Scomparso Khaled Ibrahim, l'ultimo killer di Fiumicino
Era l'unico sopravvissuto del commando dell'attentato del 1985
Sapeva di essere seguito, di essere controllato. Ogni suo spostamento monitorato. Non aveva paura ma era consapevole che tutto sarebbe potuto succedere. Martedì scorso è uscito come tutte le mattine prima delle otto. Cappuccino e cornetto al bar vicino casa, zona Rebibbia a Roma, poi di nuovo in strada verso il lavoro. Un improvviso malore lo ha piegato. Si è steso sull'asfalto privo di forze e senza più fiato. Inutile la corsa all'ospedale «Sandro Pertini». È morto così Khaled Ibrahim Mahmoud, l'unico superstite del commando palestinese che nel 1985 assaltò l'aeroporto di Fiumicino. In quel maledetto 27 dicembre persero la vita 13 persone e più di 80 rimasero ferite.
Furgoncino su pedoni a Parigi, un morto e un ferito
Che il 1985 sarebbe stato un anno strano, lo si era intuito fin da gennaio, quando nel giorno dell'Epifania, strade e monumenti di Roma furono ricoperti di bianco, sotto una nevicata che fermò la città. A marzo le brigate rosse, ormai vicino alla resa, uccidono il professor Tarantelli. Due mesi dopo il Verona di Bagnoli si laurea campione d'Italia interrompendo l'egemonia delle grandi potenze calcistiche, pochi giorni dopo la strage dell’Heysel raggela i festeggiamenti della Juventus campione d'Europa. A giugno con il 74 per cento dei voti, Francesco Cossiga è eletto Presidente della Repubblica. L'Italia, intanto, ha perso la «protezione» che il «Lodo Moro» le assicurava. È saltato l'accordo, mai ammesso pubblicamente, fra Stato italiano e una parte dell'Olp in cui si garantiva ai palestinesi la libertà di passaggio di armi sul nostro territorio, in cambio della garanzia che non ci sarebbero stati attacchi al Paese. Gli effetti non tardano ad arrivare e a settembre, nel giro di pochi giorni, una bomba viene lanciata tra i tavolini del «Cafè de Paris» in via Veneto e un altro ordigno viene scagliato contro la sede della British Airways uccidendo una donna.
La mattina del 27 dicembre Khaled e gli altri tre del commando sono pronti ad entrare in azione. Sono giovanissimi, Khaled non ha ancora compiuto 18 anni. Lui viene dai campi profughi, è nato nella guerra e solo tre anni prima ha assistito inerme al massacro di Sabra e Shatila. Magro con i capelli ricci, è stato fin da bambino indottrinato all'odio e alla violenza. Lui come i suoi compagni, è un componente della cellula estremista di Abu Nidal contrario ai progetti di pace in Medio Oriente. A Roma i quattro terroristi sono giunti già da un mese. Sono arrivati divisi in due coppie e hanno preso alloggio in due alberghi differenti. Non sanno ancora quale è la loro missione, ma sono stati addestrati a compiere anche le azioni più estreme. Devono attendere gli ordini e incontrare una persona che gli fornirà kalashnikov e bombe a mano. I quattro passano quei giorni visitando musei e chiese, vanno al cinema, poi la sera prima dell'attentato fanno un sopralluogo a Fiumicino per pianificare l'attacco.
Alle nove del 27 dicembre sono pronti per entrare in azione. L'aeroporto è già affollato, sono passati due giorni dal Natale e in molti hanno programmato un viaggio per festeggiare l'arrivo del nuovo anno. Il piano dei terroristi è quello di impadronirsi di un aereo e dirottarlo su Tel Aviv dove si sarebbe dovuto schiantare. Anche a Vienna, in quegli stessi momenti, è stato pianificato un assalto con identiche modalità e fini (l'azione fallirà e il bilancio sarà di 3 morti e 40 feriti). La dinamica dei due attentati, anticipa quello che sarà sedici anni dopo, l'11 settembre americano. I servizi segreti però hanno ricevuto delle informazioni dettagliate e sanno che nei giorni delle festività natalizie, a Fiumicino accadrà qualcosa.
Alle 9.03 i quattro terroristi sono individuati. Loro, sorpresi, aprono il fuoco e scoppia l'inferno. I palestinesi sparano all'impazzata e tirano le bombe a mano sulle persone in fila ai check-in delle compagnie aeree El Al (la compagnia di bandiera israeliana) e Twa, proprio accanto al bar. Gli uomini della sicurezza israeliana e la polizia «rispondono» al fuoco. In un solo lunghissimo minuto si compie la strage. Tre dei quattro assalitori muoiono. Saranno ritrovati tutti con un colpo alla testa. Khaled no, lui si salva da quel colpo perché un ordigno gli è esploso vicino scaraventandolo, ferito e senza più armi, a molti metri di distanza proprio dove si erano appostati dei poliziotti che lo hanno soccorso e affidato ai sanitari. Solo in ospedale Khaled è stato identificato come uno degli assalitori e portato in carcere per scontare la pena a trent'anni di reclusione.
A Rebibbia la cultura criminale, unico bagaglio di Khaled all’ingresso del penitenziario, poco alla volta lascia il posto alla cultura della legalità e del rispetto. Impara l'italiano leggendo libri e guardando la televisione. Studia e si laurea in scienze politiche con una tesi sui diritti umani. Dopo più di vent'anni da recluso arriva il primo permesso per uscire. Khaled chiede di essere portato al mare, ad Ostia. Arrivato il suo sguardo si fissa sull'orizzonte e dagli occhi scorrono le lacrime. Con 25 anni vissuti da detenuto modello, il 43enne esce e va a lavorare nella cooperativa «29 Giungo» che fornisce un lavoro ai soggetti svantaggiati. È impiegato nelle pulizie dei parchi insieme a Pino Pelosi, l'uomo che confessò l'omicidio di Pasolini.
«Ci penso sì a quei morti. Ci penso ancora e ci penserò sempre» ha confessato in un'intervista Khaled. Proprio quell'articolo che doveva raccontare la nuova vita del palestinese dopo il carcere, ha costretto per motivi di sicurezza, il suo datore di lavoro a cambiargli mansioni e sede di impiego: puoi essere un ex ladro, un ex truffatore, ma se hai compiuto una strage, non sarai mai un ex terrorista. Il tuo passato cammina con te anche se sei un'altra persona rispetto a quel ragazzino manovrato chissà da chi. Il timore di ritorsioni per quello che hai fatto, è una presenza costante nella tua vita. «Sono pericolosi, quelli non scherzano nemmeno dopo tanti anni» lo ha avvisato chi gli stava vicino.
Ma Khaled era cambiato, era diventato un mediatore culturale per giovani arabi: «Chiedo scusa mille volte ai parenti delle vittime. Quando penso a quei ragazzi che hanno le mie stesse idee di allora, mi dico che bisogna salvarli, spiegare che non serve a niente», ripeteva. E quella missione lo ha accompagnato fino all'ultimo giorno della sua vita. Il libro «Il terrorista inesistente» di Stefania Colasanti, è l’eredità che ha lasciato, dove fornisce alcune risposte alle tante domande che la vicenda palestinese porta con sé. Dopo il decesso, le autorità hanno disposto un'autopsia: troppo strano quella morte per un tipo come lui. Meglio allontanare ogni dubbio. «Edema polmonare acuto» questo il responso sulle cause che gli hanno tolto la vita. Per dare un ultimo saluto a Khaled gli amici e colleghi di lavoro hanno dovuto attendere sabato mattina alla camera ardente del «Pertini».
Khaled è stato lavato e poi avvolto in un sudario bianco come da rito musulmano. Corpo e viso sono nascosti: «Mi piace pensare che sotto quelle lenzuola non ci sia lui. Che sia andato lontano per trovare la sua pace» dice chi gli ha voluto bene davvero. Un attimo prima di chiudere la bara, il sudario si scosta facendo scorgere appena il viso: «È Khaled. Dove andrà, troverà comunque la sua pace».