il crac
È fallito pure il Gay Village di Roma
Tira aria di tempesta sulla comunità Lgbt cittadina, un muro d’acqua, un acquazzone di veleni e rancori che rischia di oscurare, almeno a Roma, perfino l’arcobaleno, i cui colori sono diventati la bandiera dei movimenti per i diritti degli omosessuali. Perché ora, ad aprire una ferita tra Gay Village e Qube - le due grandi realtà della movida unite fino allo scorso anno dalle scatenate serate della "Muccassassina" – c’è il fallimento della prima e la volontà della seconda di trarre un vantaggio dal quel fallimento, «un tentativo di fare denaro sulla fama degli altri», come ci ha sinteticamente spiegato Imma Battaglia, fondatrice del Gay Village e icona della lotta per i diritti civili del movimento Lgbt (lesbiche, gay, bisex e transgender). È tutto concentrato in queste sue poche parole il risentimento verso l’apertura, all’Eur, quest’anno, del "Village", sorto al posto del suo "Gay Village", tempio della movida omosessuale "edificato" 18 anni fa a Testaccio, cresciuto negli ampi spazi verdi a ridosso della via Cristoforo Colombo e tornato solo la scorsa estate all’interno della "Città dell’Altra economia", nell’ex mattatoio di Roma, per la sua ultima, sfortunata, stagione. E sì, perché tra i motivi del crac finanziario del Gay Village ci sarebbero anche due giorni di pioggia, due serate in cui l’evento, svolgendosi all’aperto, è rimasto chiuso. E dalle sue ceneri, a tempo di record, è sorto il "Village", che ha sì fatto a meno della parola "gay", ma ha comunque conservato i colori dell’arcobaleno nel logo. Tanto è bastato per mandare su tutte le furie Imma Battaglia. Il "Village", infatti, non ha niente a che fare con quella storica realtà, né ha alcun legame con le società Extralive srl e GaviE20, entrambe fallite tra il 2018 e il 2019 e riconducibili a Imma Battaglia, che della prima è stata proprietaria con una quota del 25 per cento e della seconda è stata prima vice presidente del consiglio d’amministrazione, poi consigliere delegato fino a quando la società è stata messa in liquidazione. Tra i soci del "Village" compare invece un altro protagonista della movida romana: il suo nome è Shlomo, patron della discoteca Qube di Portonaccio, che da 15 anni, durante la brutta stagione, ospita la serata itinerante Muccassassina, ideata nel 1991 come autofinanziamento del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, di cui la stessa Imma Battaglia è stata presidente per cinque anni, dal 1995 al 2000. Il signor Shlomo, insieme ai suoi soci, ha dunque fiutato l’affare e si è dato da fare per offrire alla movida romana, orfana del Gay Village, un’alternativa che potesse essere apprezzata in particolar modo dal mondo omosessuale. E in questo, non c’è niente di male. Ma Imma Battaglia, evidentemente, non la pensa così. L’astio e le freccatine, fino ad ora, erano state tenute sottotraccia, lasciando che sui social e sui blog si autoalimentasse il chiacchiericcio della comunita Lgbt. E sarà anche per questo che Shlomo – pur non chiamato direttamente in causa dalla Battaglia, ma stuzzicato in merito da Il Tempo – ha preferito non replicare, spiegando di «non accettare provocazioni», ma ha anche sottolineato che «usare come scusa la vicinanza dei nomi tra un’ex realtà ed una nuova - Village invece di Gay Village - non è sufficiente. Anche perché - ha aggiunto - il Gay Village non esiste più semplicemente perché è fallito». Un fallimento che scotta, soprattutto e comprensibilmente per l’orgoglio o il "pride"di Imma Battaglia, che sul triste epilogo finanziario delle due società ha preferito far melina, portando piuttosto il discorso - e quindi il motivo della mancata apertura, quest’anno, del Gay Village - sulla sua recente unione civile con Eva Grimaldi. «Un matrimonio – ha spiegato – a cui si è dovuta dedicare a tempo pieno», tanto da costringerla a «prendersi un anno sabbatico» dagli oneri dell’organizzazione della nuova stagione del Gay Village. Ma perché è fallito il Gay Village? A parte le due sfortunate serate di pioggia dell’estate 2018, che avrebbero causato mancati incassi per 95mila euro, i motivi del crac sono messi nero su bianco dagli amministratori della Gavi E20 Srl sulla "nota integrativa al Bilancio di esercizio", chiuso al 31-12-2017. La "debacle" sarebbe dunque iniziata l’anno precedente, nel 2016, e continuata nel 2017 addirittura per colpa dell’Isis. Leggiamo: «La causa principale della perdita - scrivono - è da imputare al calo di fatturato pari a -25 per cento rispetto al 2016, di circa 633.670 euro, da imputare essenzialmente ad una minore presenza di pubblico pagante, che ha portato ad una contrazione del 28 per cento dei corrispettivi da botteghino e da somministrazione di bevande, solo parzialmente compensato da maggiori introiti da sponsorizzazione. Un calo di presenze di pubblico pagante - spiegano - riscontrato anche con altre realtà dell'Estate Romana tra il 20 per cento e il 30 per cento, risultando quindi negativamente in linea con gli andamenti di settore». La crisi c’è, ed è noto, soprattutto nella Capitale, con il suo «stato economico particolarmente delicato con dati macroeconomici che evidenziano come il Pil pro-capite sia sceso del 15% nel periodo 2008-2016; tale andamento negativo - si legge ancora nel documento - ha effettivamente portato ad un ridimensionamento della capacità di spesa dei singoli utenti, in particolar modo verso il pubblico di riferimento, tra i 18 e i 30 anni». Ma andiamo avanti, perché la lettura della documentazione contabile riserva una sorpresa. La colpa della fine della gloriosa stagione del Gay Village sarebbe da imputare anche all’Isis. Nientepopodimeno che al califfo nero del sedicente Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. Leggiamo: «Tra le possibili cause di un calo così consistente e inaspettato, possiamo sicuramente annoverare: il susseguirsi di attacchi terroristici in Europa e nel mondo che hanno preso di mira grandi eventi e le capitali europee (vedi Manchester Arena del 22/05/2017, oltre a Londra del 03/06/2017 e Barcellona del 17/08/2017)». Non meno avrebbero pesato i «disastrosi eventi di Piazza San Carlo a Torino del 03/06/2017 in cui durante un evento con 40.000 tifosi si sono verificati gravi incidenti». Anche l’Estate Romana, insomma, avrebbe risentito di questo clima di «maggiore insicurezza» diffusosi in Italia e nel resto d’Europa. E di conseguenza ci si sarebbe messo pure il numero uno della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, «con provvedimenti di "safety and security" straordinari che hanno portato non solo a maggiori costi, ma anche a misure più stringenti sul pubblico, alimentando una spirale di insicurezza nei confronti dei grandi eventi». Eppure, nonostante il fallimento del Gay Village, il futuro della movida Lgbt non sembra davvero a rischio: da una parte perché il fuoco amico della concorrenza ha dimostrato come, davanti ai colori dell’arcobaleno, la parola "gay" possa anche essere superflua, dall’altra perché, ma queste per ora sono solo voci, dicerie, pettegolezzi interni alla comunità gay-lesbo romana, il marchio o il brand "Gay Village", potrebbe essere presto ceduto. Imma Battaglia non ha confermato questa ipotesi. E abbassando la voce, al telefono, ha aggiunto di non poter dire di più. Che la cessione del brand possa essere l’ultimo atto della gloriosa stagione scenica del Gay Village, è infatti un’ipotesi che ha suggerito lo stesso Shlomo - ma che ha anche una sua logica finanziaria, visto il valore sociale e artistico di un evento che nel corso degli anni ha saputo richiamare giovani anche al di fuori della comunità Lgbt - domandosi: «Cosa altro potrebbe inventarsi, del resto, il curatore fallimentare, per salvare il salvabile?». Aspettando che torni di nuovo a splendere l’arcobaleno, che il Gay Village, come una fenice, risorga dalle sue ceneri, l’augurio è che il tarlo velenoso del pettegolezzo lasci stare la comunità gay-lesbo. Anche perché la bandiera con i colori dell’arcobaleno, prima di essere quella del Gay Pride, è un simbolo di pace, speranza e serenità. Alla faccia di Abu Bakr al-Baghdadi, naturalmente.