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Dipendente precaria violentata in banca. Ex direttore condannato a 3 anni e 9 mesi

I difensori della vittima, Debora Zagami e Marco Gliosci, hanno fatto ottenere 20 mila euro alla loro assistita

Andrea Ossino
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Modelle, attrici o aspiranti tali. Le vittime di violenza sessuale che in questi giorni riempiono le pagine dei rotocalchi, non sono le uniche donne a dover aver a che fare con l'orco di turno. E così, a Rocca Priora, anche una giovane dipendente precaria di un istituto di credito cooperativo è stata violentata. O almeno questo recita la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Velletri. Una sentenza, quella pronunciata dalla Corte presieduta dal giudice Roberti, nata dalla denuncia della vittima, dalla sua forza di denunciare un suo superiore, l'allora direttore generale della Banca del Credito Cooperativo del Tuscolo, Gianni Saccoccio: condannato a scontare 3 anni e 9 mesi di reclusione e a risarcire 20 mila euro alla ragazza. E anche se si tratta di una sentenza di primo grado (l'imputato avrà dunque ancora due gradi di giudizio per ribaltare il verdetto), i fatti narrati riportano drammaticamente alle recenti cronache. Era il 2007 e Silvia (il nome è di fantasia), aveva 32 anni. Lavorava con un contratto interinale presso la Filiale di Rocca Priora e dopo qualche mese, avrebbe iniziato a subire le avance dell'allora direttore generale della banca, tra gli uffici dove era costretta a recarsi per lavorare. Prima che l'uomo, classe 1948, andasse in pensione, anche lui si recava in quegli uffici. E lì, nell'ottobre del 2008, “dopo avere chiuso le porte dell'ufficio nel quale si trovavano e dopo averla afferrata con forza per il collo – recitano gli atti a disposizione della procura – (avrebbe ndr) costretto (Silvia ndr) a subire atti sessuali, avendola baciata, infilandole la lingua in bocca”. In altre occasioni le avrebbe toccato il seno “e palpeggiato le natiche contro la sua volontà”. Non era facile querelare un superiore. Non è facile denunciare una violenza, ricordare gli episodi, rivivere quelle sensazioni e raccontarle agli inquirenti, ad alcuni sconosciuti. E non era facile neanche affrontare un processo in cui l'imputato non si era presentato mai in aula, non aveva mai reso dichiarazioni, ma aveva provato a sostenere la sua difesa attraverso una lunga sfilza di testimoni. Erano i funzionari della banca da lui presieduta, alti dirigenti o semplici segretari. Ogni parola pronunciata dai teste della difesa mirava a far cadere le accuse, a “salvare” l'imputato da una condanna. Quelle stesse parole avevano avuto anche un altro effetto: lasciare Silvia da sola, con le violenze subìte e i traumi psicologici conseguenti. Silvia ovviamente aveva già lasciato quel posto di lavoro, non riusciva più a recarsi nella caverna dove l'orco si sarebbe approfittato di lei. Sembrava aver perso tutto, ma martedì scorso ha provato una soddisfazione personale. Non saranno certo i 20 mila euro che riceverà a cancellare ciò che è successo, ma una sentenza capace di far emergere la verità è un passo avanti importante: l'imputato è stato condannato a 3 anni e 9 mesi. “Siamo soddisfatti – commentano i legali di parte civile, Debora Zagami e Marco Gliosci – anche se a distanza di anni, giustizia è fatta”.       

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