Addio a Franco Romagnoli, principe dei ristoratori romani
Il titolare del Moro, a due passi da fontana di Trevi, frequentato da vip e potenti
Caro direttore, è andato via con signorilità, così come era vissuto, il principe dei ristoratori romani, Franco Romagnoli, per tutti il Moro. Il suo locale, una deliziosa bomboniera a due passi da Fontana di Trevi e dai palazzi del potere, è da anni il crocevia di incontri, importanti accordi, risate, brindisi e affari. Se quei tavolini, soprattutto quello dell'ambitissimo privée, potessero parlare ne uscirebbe senz'altro uno spaccato fantastico della vita della Capitale, di quello che chiamano il «generone romano», tra la Prima e la Seconda repubblica. Come entravi dalle doppie porte d'ingresso si stagliava la figura sorniona e rassicurante di Franco, figlio d'arte e padrone di casa di ineguagliabile eleganza. Eppure quest'uomo, nonostante avesse avuto ai suoi tavoli dal re di Spagna all'emiro del Qatar, da Robert De Niro a Ursula Andress e Richard Gere, è stato un lavoratore umile, come pochi ne sono rimasti in questo mondo di «masterchef» pieni di sé. Era lui che all'alba andava al mercato per scegliere cosa acquistare, controllando frutto per frutto, verdura per verdura. Si caricava la spesa sulla Mercedes station wagon argentata, poi dal parcheggio di Santa Maria in Via i camerieri, sempre gli stessi e impeccabili da anni, la portavano in cucina. Sul mobile da cassa poi non mancava mai un gran fascio di rose rosse, dal gambo lungo, segno di amore per i clienti che ti dava l'impressione di essere a casa di amici felici di riceverti. Appena sedevi arrivava Franco, che chiamando quasi tutti i suoi clienti per nome dall'alto del suo metro e novanta, chiedeva: che cosa ti do? Con il suo blocchetto sempre tra le mani, tenuto con la stessa grazia con cui il direttore d'orchestra agita la sua bacchetta, dirigeva l'orchestra che stava in cucina. Da lì sono usciti pasti che hanno fatto la storia della gastronomia romana, come la famosa «pasta al Moro», una rivisitazione della carbonara, le minestre, condite con oli prelibati, ed ogni genere di gustosa carne «romana», dall'abbacchio alla paiata, fino, dulcis in fondo, ad uno squisito zabaione che ha deliziato migliaia di avventori. Tra questi grandi manager, che proprio su quei tavoli hanno discusso di un'Italia che cresceva, come Ernesto Pascale della STET alle prese con l'avvento della fibra, Lorenzo Necci, padre dell'alta velocità di cui altri si sono voluti appropriare, Cesare Romiti, impegnato negli anni difficili della Fiat con la marcia dei quarantamila, Cesare Geronzi, un banchiere che ha fatto la storia del reddito in Italia, Alessandro Profumo, attuale AD della strategica Leonardo, o Flavio Briatore, forse il internazionale di tutti. E poi politici di ogni colore e di ogni partito. Al Moro, sotto lo sguardo vigile di Franco, sono nati e morti molti governi. Dal tentativo di Maccanico a quello di Pandolfi, fino all'era Renzi, con Luca Lotti e Denis Verdini sempre presenti. Lui ha fatto della sua osteria molto più di un ristorante. E quando si rimaneva in pochi comparivano i mazzi di carte, una tradizione più inglese che romana, e al tavolo d'angolo un posto era sempre riservato alla famiglia dei costruttori romani Salini, protagonisti di partite infuocate. Oggi che Franco non c'è più gli dobbiamo un grazie particolare perché ci ha lasciato Andrea e Elisabetta, i figli, che insieme ai nipoti perpetueranno la sua arte.