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Io, col burqa a spasso per Roma tra insulti e indifferenza

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(foto Pasquale Carbone)

Francesca Pizzolante (video Pasquale Carbone)
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Tutto riparte dal principio. A due anni dal reportage de Il Tempo nei panni di una donna musulmana, abbiamo deciso di rispolverare il velo e vedere com'è cambiata Roma nel frattempo. Il burqa afgano è il più integralista degli abiti imposti alle donne. Così scegliamo di tirare nuovamente fuori dall'armadio quel velo integralista che copre la donna da capo a piedi e rifare un giro per la città. La prima sensazione, appena indossato, è di oppressione: la retina che copre il volto che permette di vedere senza che gli altri riescano a scorgere lo sguardo di chi c'è sotto dà l'idea di soffocare. L'istinto è quello di strapparlo via e respirare a pieni polmoni ma non sarà questa la volta. Per 24 ore Il Tempo avrà il velo e documenterà le reazioni di coloro i quali si ritroveranno, inaspettatamente, un vero e proprio fantasma al proprio fianco. Ore 9:00 Tappa d'obbligo per comprendere l'umore della pancia degli italiani è il mercato. Qui si può tastare il polso della realtà senza inganni o finzioni. Il mercato di Testaccio è un po' lo specchio della società di Roma, un vero e proprio melting pot di etnie ed età: anziani, giovani, uomini, donne, italiani e stranieri convivono tra loro nel rituale della spesa. È terreno fertile per il nostro esperimento che, più tardi, si rivelerà più che riuscito con tanto di colpo di scena. L'ingresso è quello di via Beniamino Franklin, dove si trovano i banchi di frutta, verdura ma anche di carne e pesce. A fare da sottofondo l'immancabile réclame dello strillone in salsa mercatale che, alla vista del burqa, sussulta ad alta voce in romanesco «Ao' scappamo che mo' ce fanno saltà». L'effetto ottenuto è quello sperato: per un attimo la vita tra i banchi si ferma e tutti gli occhi sono puntati su di noi. Persino gli stranieri, che dovrebbero essere solidali con i propri simili, si scansano quasi infastiditi. C'è chi tira fuori uno smartphone e scatta una foto. La nostra passeggiata turba la quiete del rione e c'è chi bisbiglia un insulto: «Ve ne dovete andare, state infestando l'aria. Siete dei terroristi». Ore 11.00 Stazione Piramide. Da sempre crocevia di pendolari è tra le stazioni più frequentate. Dall'acquisto all'obliterazione del biglietto non si riscontrano problemi. La sicurezza c'è ma nessuno muove un dito, mentre gli utenti, quelli sì, roteano gli occhi o corrugano la fronte. Difficile, se non impossibile, non avvertire quel sentimento a metà fra la paura e l'intolleranza. Prendiamo la metro e decidiamo di scendere a Garbatella. Alla fermata incontriamo due militari che dapprima fanno finta di niente ma dopo incominciano a perlustrare la zona della stazione, binari inclusi. Ore 13.00 Garbatella è il cuore popolano di Roma. Qui, paradossalmente, la gente si rivela più tollerante e all'insulto predilige la battuta ironica. Una donna anziana ci ferma per chiederci «Riesci a respirare? Se vuoi ti aiuto a bucare meglio la rete». Certo, la diffidenza è tanta, e sono i meno giovani quelli che non tanto tollerano il burqa per le strade del quartiere. «Ve ne dovete andare a casa vostra - dice un uomo sulla sessantina -. Se non vi fermiamo tra dieci anni saremo completamente colonizzati da voi. Il problema è che non abbiamo persone con gli attributi al governo altrimenti queste pagliacciate non sarebbero consentite». Dalla periferia al centro della città il viaggio continua costellato di risatine e smorfie. Fa strano scorgere un burqa fra le vetrine di una strada alla moda dove la maggior parte delle donne sfoggia profondi spacchi e tacchi vertiginosi perché, nell'immaginario collettivo questa figura è ancora abbinata alle zone aride e bellicose del Medio Oriente, alle sue bufere sabbiose che fanno di questo vestito un'armatura quasi fonte di sollievo e riparo da quei granelli sparati come aghi sulla pelle.

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