«Io, sopravvissuto all’inferno di Auschwitz»
Alberto Mieli aveva diciassette anni nel 1943 e viveva con la famiglia nelle case popolari della Garbatella. Ricorda che quel 16 ottobre vennero avvisati e scapparono a nascondersi in una casa dietro il Ministero di Grazia e giustizia. Finì nell’inferno di Auschwitz. Come riuscì a salvarsi lo ha raccontato oggi agli studenti dell’istituto professionale «Giulio Verne» di Acilia nell’incontro organizzato dalla professoressa Simona Gamorra Bulla «per non dimenticare la parentesi più sanguinaria e violenta della storia dell'umanità». «Ci avvisarono che stavano facendo rastrellamenti al ghetto», ricorda Alberto Mieli di fronte all’affollata platea di alunni e docenti. «Credevamo prendessero solo gli uomini per mandarli a lavorare, invece purtroppo presero bambini, donne incinte, vecchi e malati; 1.200 persone in tutto. In giro per la città c'erano dei delatori che per tremila lire vendevano la vita di un uomo. Ma non posso dire ci fosse antisemitismo a Roma, tanto è vero che dei miei familiari sono stato preso solo io. I miei fratelli, eravamo in otto, sono stati accolti ciascuno da una famiglia della Garbatella, ci fu una grande solidarietà, vennero trattati come figli». «Del 16 ottobre c'è poco da raccontare - si commuove Alberto Mieli - Fecero trovare i camion fuori dalla piazza dove oggi c'è la scritta che ricorda il rastrellamento, e caricarono chi c’era. Non bastarono quei cinquanta chili d’oro che i tedeschi vollero dalla comunità ebraica (e molti cattolici parteciparono a questa raccolta) con l’assicurazione che nessuno sarebbe stato toccato. Io fui preso a novembre. A Regina Coeli venni messo nel sesto braccio, quello sotto controllo diretto della Gestapo e delle SS. Ero insieme ai prigionieri politici; non saprei dire i loro nomi e poi adesso non li riconoscerei perché stanno disgraziatamente tutti dentro le fosse Ardeatine. Tutto il sesto braccio finì completamente alle fosse Ardeatine e poiché non raggiunsero il numero, presero anche cinquantasei ebrei». Alla domanda su Erich Priebke, risponde controvoglia: «Lui non solo dette l'ordine, ma fece parte dell'uccisione diretta; ma è una cosa vergognosa tutta l’importanza che televisioni e giornali hanno dato a costui. Che importanza vuole dare a un uomo che ha vissuto cento anni senza pentirsi?». Poi riprende il racconto: «Venni spedito ad Auschwitz. Nessuna mente umana può immaginare che cosa facessero lì. Uccidevano per la malvagità di uccidere. Era una cosa indescrivibile. Non avevano nessun rispetto. I bambini di due-tre mesi, presi per i piedini, lividi di freddo, li facevano dondolare e poi con violenza li lanciavano in aria e gli sparavano. Prendevano ragazze, appena adolescenti, le portavano nelle baracche trasformate bordelli». Alberto Mieli mostra il numero marchiato sul braccio a Birkenau: «Eri un numero, non un essere umano. Mi salvai perché mi mandarono a lavorare nelle fabbriche di guerra a Sosnowiec, c'era un poco più di mangiare e ho avuto la fortuna di lavorare con operai civili. Ricorda la marcia dei 620 chilometri per arrivare al confine della Cecoslovacchia. Eravamo lerci, non ci facevano lavare e la notte dormivamo in mezzo alla fanghiglia delle bestie. Ci rinchiusero poi per sei giorni nei vagoni piombati, senza acqua e senza cibo. Molti morivano e i corpi venivano messi lungo le pareti dei vagoni. Di notte li usavamo come cuscini; a volte ti voltavi e ti trovavi col viso del morto davanti». Mentre piange, Alberto Mieli spera che nessuno veda più ciò che i suoi occhi furono costretti a vedere. «Papa Wojtyla mi chiese un giorno: figliolo come hai fatto a salvarti da quell'inferno? Io gli risposi: Santità proprio non saprei».