Malati di tumore lasciati in corsia
C'è pure gente che ha avuto incidenti, con varie complicazioni. È pazzesco, l'ho detto anche ai medici di turno, ma anche loro lavorano in condizioni precarie, bisogna capirli. Non riescono più a gestire la situazione al reparto e fuori ed è una baraonda in generale fra barelle, strilli e caos». Si sfoga al telefono la signora Graziella Lanzetta. È un fiume in piena. Non ce l'ha fatta proprio a digerire quella che definisce «una roba indegna, fuori dalla normalità». Marilena, malata oncologica terminale, mamma di un figlio di 30 anni, ricoverata dal 30 dicembre scorso all'ospedale San Giovanni nel reparto «Breve osservazione», era sua cognata: una vita spezzata da un male incurabile alle ossa. Quando è stata parecchio male sotto le feste è stata ricoverata in attesa di essere spostata in un hospice (la legge sui malati terminali parla chiaro), ma le sue condizioni sono peggiorate e non c'è stato tempo. È deceduta ieri l'altro, «avendo una stanza in reparto», insiste la signora Graziella, «ma altri pazienti stavano in corsia in fila come disperati». Dai toni che usa si comprende come, approdata in ospedale, non si aspettava quello che ha visto: un limbo con la speranza di essere curati in condizioni migliori. «Pazienti da giorni in corridoio con le flebo e solo due medici che facevano il possibile per rincorrere le richieste dei malati», racconta esterrefatta. «I letti fuori, volti sofferenti ospitati alla meno peggio accanto agli stanzoni pieni. Mi è sembrata la corsia degli abbandonati. Non c'erano nemmeno volontari all'orario dei pasti». Insomma, una piazzetta come quella che per un po' ha fatto parlare di sé al Policlinico Umberto I, seppur in formato ridotto. Stesso stile: gli spazi vuoti riempiti dai letti che non ci stanno nelle stanze, il poco personale a disposizione, l'indifferenza dilagante. «Ho voluto rendere pubblica la storia di sofferenza di mia cognata perché, anche se in questo momento la sanità sta vivendo un brutto momento con tagli e tutto il resto, è giusto che comunque vengano fuori queste esperienze non degne di un Paese civile. Spero serva a qualcosa», prosegue la signora Lanzetta. E poi c'è un altro nodo alla gola che non riesce a mandare giù di questa esperienza: il fatto che sua cognata, all'ultimo stadio della malattia, non ha potuto avere l'aiuto dei parenti nei suoi ultimi giorni di vita. «Un trattamento disumano». Tutto regolare, perché i suoi familiari potevano vederla solo nelle ore di accesso alle visite, così come da regolamento per tutti i pazienti del nosocomio. Peccato che la «ferrea legge» sia tale, però, solo sulla carta. Un'ora scarsa il pomeriggio dalle 15 alle 16 (e due giorni pure la mattina), «che si riduce di parecchio perché ci sono sempre emergenze e spesso aprono le porte solo alle 15.30; poi, c'è una fila interminabile. Il marito di mia cognata e il figlio avevano il permesso di restarle vicino, ma li facevano sempre andar via. Qualche sera fa, Marilena voleva l'acqua, ma non riusciva a parlare e gli infermieri non l'hanno sentita. Non può essere mica un attentato alla salute dei ricoverati avere vicino qualcuno. Come pure essere sistemati in stanze normali e non in mezzo ai piedi».