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preparo cappuccini» Lo sfogo del calabrese Vincenzo Alvaro «Sono incensurato. Ho solo debiti»

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Sonoincensurato. Ma quale trequartino della 'ndrangheta battezzato da Michele Facchineri. Il boss sta dietro a un bancone? Ogni giorno, alle 5,30 del mattino alzo la serranda del bar al Tuscolano di mia cognata e mia nipote, anche questo sequestrato. Faccio caffè, cappuccini e tramezzini e poi, prima delle 10, torno nel mio appartamento senza aria condizionata, comprato con 325 mila euro di mutuo che devo ancora finire di pagare, con due balconi descritti nell'ordinanza come due piscine. Alle 16,30 torno e dopo quattro ore riabbasso la serranda». Eccolo Vincenzo Alvaro, nato 48 anni fa a Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Il 22 luglio 2009 il suo nome ha fatto il giro di mezzo mondo. Su disposizione del Tribunale di Reggio Calabria, carabinieri del Ros Finanza hanno sequestrato il noto locale della Dolce vita assieme ad altri bar in giro per la città, tratteggiando i contorni di una sorta di cupola che avrebbe gestito il tesoro. Al vertice Vincenzo Alvaro, sotto gli altri. Il processo di primo grado è cominciato. Il 20 luglio ci sarà la seconda udienza. Al difensore di Alvaro, però, i conti non tornano. L'avvocato Domenico Cartolano cerca di unire i punti di questo scenario abbozzato dalle indagini. Ma il disegno non lo convince. Alvaro ha l'aspetto tondo, lo sguardo sereno e la propensione al sorriso. Quando parla col suo difensore si accende un po'. Gli dice sempre: «Mi hanno dipinto appartenente di una cosca che ha fatto i soldi coi sequestri di persona, il traffico di droga e armi, reinvestendo tutto nelle attività economiche, anche in quelle romane. Mi hanno accusato di essere stato il gran manovratore di una rosa di prestanome che hanno agito dietro miei ordini. Hanno detto che conoscevo Damiano Villari, l'ex barbiere di Sant'Eufemia d'Aspromonte che ha tentato la scalata del Cafè de Paris. Ma non è vero. Conoscevo Villari perché in Calabria è stato mio collaboratore, un procacciatore d'affari quand'ero concessionario dei gelati Sanson. Ma sfido chiunque, anche i tassisti di via Veneto, a testimoniare se hanno mai visto la mia faccia da quelle parti». La storia di Vincenzo Alvaro comincia presto. Fa il pastore col padre, impara a fare il formaggio. A 17 anni diventa aiuto cuoco in un ristorante. Apprende come si taglia la carne, i grossi quarti. Sotto il servizio militare torna nelle cucine. Si congeda, passa il tempo e lavora per l'assicurazione Ras. Fa il record di fatturato nella sua area e viene premiato. Mette su famiglia, diventa padre di tre figli, uno è una giovane promessa del calcio. Crea impresa. Eredita la distribuzione dei gelati Sanson. Il volume d'affari passa da 500 milioni di lire all'anno a un miliardo e mezzo. Nell'88 fonda l'impresa individuale per commerciare pelli e pellicce e, due anni dopo, l'Alpaca 90 di vendita all'ingresso di prodotti vari. Ma nel '99 la sua stella perde lucentezza, eclissata dai guai giudiziari. L'avvocato Cartolano ricapitola spulciando tra una pila di carte. Il 26 marzo di quell'anno scatta la misura cautelare. Vincenzo Alvaro è accusato di far parte di una consorteria mafiosa con radici a Cosoleto. I giudici rigettano la richiesta di sequestro patrimoniale dei beni: «Gli inquirenti non indicano ragione alcuna per la quale i capitali occorsi all'Alvaro per l'avvio e la gestione debbano essere ritenuti di illecita provenienza». Alvaro viene sottoposto a tre anni di sorveglianza speciale, stoppa gli affari e fallisce. Chiede e ottiene la possibilità di trasferirsi a Roma. Qui conosce Damiano Villari. Con la moglie Maria Eufemia Billè gestisce il bar California di via Bissolati, vicino a via Veneto. Alvaro si fa assumere come aiuto cuoco, «il mestiere che ha sempre fatto - dice l'avvocato - anche se hanno detto che faceva lo chef della 'ndrangheta». Ha rastrellato 80 milioni dalla vendita di un appartamento, i 100 milioni regalati al suo matrimonio con Maria Grazia Palamara, ha aggiunto il denaro vinto alla lotteria, ha messo insieme i prestiti alle banche chiesti dalla consorte (lui è fallito) e assieme a cugini e cognati prende in gestione tre bar: il Time Out in via del Buon Consiglio, il Gran Caffè Cellini in via Capocelatro e un terzo in via Gallia. La tesi dell'associazione a delinquere dura fino al gennaio 2011. Poi crolla. La Corte d'Appello di Reggio Calabria sostiene: «Le risultanze processuali in atti appaiono prive della necessaria univocità e dei necessari riscontri che possano giustificare una pronuncia di condanna. L'imputato va assolto per non aver commesso il fatto». La sorveglianza speciale invece dura. L'avvocato Cartolano sottolinea la stranezza: «C'è una proposta di legge di 12 deputati ferma in Parlamento che metterebbe fine a questa assurdità: l'accusa decade ma la limitazione resta». Il 12 marzo 2009 l'altra tegola. Su disposizione del Tribunale capitolino, i Ros dei carabinieri lo arrestano perché avrebbe portato in banca 16 mila dollari falsi. Passano 24 mesi e l'accusa sfuma: «Versare banconote false presso un istituto di credito profila una condotta logicamente poco compatibile e condotta di fatto raramente riscontrata nella casistica giudiziaria». Vincenzo Alvaro è assolto perché il fatto non costituisce reato. E i dollari falsi? Li hanno scaricati i cinesi comprando sigarette per gli sposi. La vicenda rivela nuovi sospetti che animano gli inquirenti sul conto di Vincenzo Alvaro, a sua insaputa. Il suo avvocato apprende che da due anni la Procura di Roma ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di riciclaggio aggravato. È il primo atto dell'inchiesta che nel luglio 2009 ha portato al Cafè de Paris. Dal riciclaggio del 2007, oggi i giudici accusano Alvaro di interposizione fittizia di persona: non doveva interessarsi alla gestione dei locali. Lui ribatte che i locali sono della moglie e non di altri. E ha fatto anche di più. Ha presentato un dossier denuncia che comincia con le parole dell'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. «Non ci sto».

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