La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia
C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato. Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...». Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento». Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiaccherare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori». Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli». Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodo gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro». Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?». Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi adosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...».