Un bacio alla droga Il fumo entra a Rebibbia
«Mi scusi, dovrebbe lasciare anche i soldi. Non può entrare così». L'anticamera del carcere di Rebibbia è un puzzle di cassetti dove lasciare gli oggetti personali. Oltre il muro di cinta si arriva solo se controllati dalla testa ai piedi. Niente chiavi, niente borse, niente cellulare, niente lame, naturalmente, né preziosi. Il rischio che qualsiasi oggetto finisca nelle mani dei carcerati è troppo alto: lì dentro tutto è usato per ferire, minacciare e comprare. E il sistema di sicurezza deve essere al livello più alto. A noi lasciano un pezzo di carta e una penna. Anche quella sarebbe proibita. Ma per raccontare una giornata da recluso si può fare una eccezione. Dietro di noi sbatte l'ultima porta blindata che divide due mondi. Boom. Siamo dentro. Nel cortile esterno che cammina intorno all'intera casa circondariale. C'è un muro alto almeno dieci metri dove corrono i cavi in fibra ottica che, se toccati, fanno scattare l'allarme e tutti i sistemi anti evasioni. Nell'istituto vigilano 620 agenti per più di 1700 detenuti. Di fronte, pochi scalini portano portano al casellario. Qui il detenuto lascia tutti i suoi averi. Valori, fibie, giacche imbottite, armi. Il carcere gli apre un conto corrente virtuale utilizzabile per comprare beni di prima di necessità extra a ciò che passa l'istituto. Dopo pochi minuti si passa all'immatricolazione: qualche foto, le impronte e l'apertura del fascicolo. Infine, la visita medica. Con l'ok del dottore finiamo nel primo reparto dove arriva il detenuto. Si chiama reparto Prima Accoglienza. Il carcerato parla con gli psicologi che valutano il suo stato mentale o il rischio di atti autolesionistici. Dopo 72 ore in Prima Accoglienza viene inviato nella cella del suo reparto definitivo. A Rebibbia ci sono sette reparti. Ognuno ha tre piani ed è a forma di stella: dalla postazione centrale, dove vigila un agente, partono tre braccia. Il G9, G11 e G12 sono reparti comuni con detenuti in attesa di giudizio o con una pena breve. Al primo piano del G9 c'è una sezione precauzionale. Qui resta isolato dagli altri chi ha commesso reati sessuali o è un ex guardia. Il rischio che si verifichino risse è troppo alto. Del resto, tra i corridoi, sono quasi all'ordine del giorno. Passando tra le celle si incrociano sguardi di sfida. La giornata, in attesa dell'apertura delle gabbie, è un continuo sollevare pesi per gonfiare muscoli. Attaccano a un bastone due casse d'acqua e fanno su e giù tutto il giorno. Tra una pausa e l'altra parlano, urlando o tenendo la voce molto bassa. L'amicizia, però, qui dentro è troppo fagile. Nessuno si fida dell'altro. La verità è che sono costretti a socializzare. Del resto vivono fino in sei nella stessa «stanza». Pochi hanno la fortuna di essere in «singola» o la distrazione di una televisione. Anche al primo piano del G9 c'è una sezione «protetta»: è dedicata ai diversamente abili o ai tossico dipendenti. Eppure, anche se i drogati sono isolati, la droga gira in tutto l'istituto. Un agente racconta: ogni volta che parte una perquisizione con i cani spunta di tutto: hashish, cocaina, eroina. È inevitabile, spiega, perché i detenuti si ingegnano. Per passarsi la «roba» usano un linguaggio di comunicazione interna che cambia ogni settimana: serve per gli scambi e per avvertire quando parte un controllo. L'ultimo metodo per far entrare la droga a Rebibbia è far arrivare in visita un parente con un chewing gum in bocca dove all'interno è nascosto il «fumo». Poi il parente si bacia col detenuto ed ecco il passaggio. Ma bisogna stare attenti anche ai figli piccoli dei carcerati. Le mamme nascondono droga nei pannolini. Gli agenti, ormai, sono attenti a tutto. C'è poi il reparto G8. Ci sono i detenuti definitivi. Quelli di lunga pena. Il paradosso è che sono i più tranquilli, perché per meritarsi permessi e possibilità di lavorare devono avere una condotta regolare. Qui quasi tutti hanno un lavoro dentro l'istituto (dalle semplici pulizie alla distribuzione di cibo). Pochi fortunati possono lavorare anche in aree esterne all'istituto. Il temperamento più pacato di chi è in queste celle ha permesso al direttore del carcere, Carmelo Cantone, di mettere qui la sezione dei detenuti transessuali: non possono stare con gli altri perché loro sono a rischio rissa. Ci sono poi altri due reparti, che chiameremo GX e GY. Il primo ospita i collaboratori di giustizia, che da queste parti vengono chiamati «infami». Il secondo i detenuti (non arrivano a cento) con il 41bis: il carcere duro. Questi carcerati non possono stare a contatto con gli altri per seri motivi di sicurezza. Fanno una vita a parte. Si spostano poco all'interno di Rebibbia. E spesso si recano al reparto multivideo per effettuare comunicazioni a distanza con gli inquerenti in conferenza. Infine, c'è il reparto infermeria. Il G14. È un vero ospedale. Al primo piano c'è chi è affetto da Hiv e malattie incurabili. Al secondo c'è l'assistenza psichiatrica e la medice generale. Al piano terra gli ambulatori. Dal dentista al chirurgo per ogni specialità. Rebibbia è una vera città dove i servizi sono puntuali. Nessuno sgarra. Né il sistema di sicurezza. Tantomeno i carcerati. Alle 8.30 le loro celle si aprono fino alle 11 e possono socializzare con gli altri del proprio reparto. Dalle 13 alle 15 si passeggia in un mini cortile esterno. Tra le 16 e le 18 si socializza ancora nella proprio sezione. Poi, alle 20.30, si torna dietro le sbarre. Noi usciamo poco prima.