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Busco unico colpevole. Di altri non c'è traccia

Simonetta Cesaroni

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Il Dna sul corpetto e sul reggiseno della vittima. L'assenza di tracce biologiche di altre persone. La contestualità fra il morso al capezzolo sinistro e l'azione omicidiaria. L'appartenenza all'imputato dell'impronta del morso. Elementi «tali da far ritenere raggiunta la piena prova di responsabilità» di Raniero Busco nell'omicidio di Simonetta Cesaroni. In 139 pagine piene di citazioni dibattimentali, la III Corte d'Assise presieduta da Evelina Canale spiega perché il 26 gennaio scorso ha condannato a 24 anni di reclusione l'ex fidanzato della ragazza uccisa in via Poma il 7 agosto 1990. Una condanna, osservano i giudici nelle motivazioni depositate ieri, a 90 giorni dal verdetto, che provocherà «effetti disastrosi» nella «vita di Busco» che, nel frattempo, si è sposato ed è diventato padre. Quello che le motivazioni non spiegano e che il processo non ha provato, oltre a non chiarire molti lati oscuri della tesi sostenuta dal pm Ilaria Calò, è il ruolo del portiere Pietrino Vanacore nella vicenda. Tanto da definire la ricostruzione dell'accusa «plausibile» ma non «pienamente provata», eppure con una «sua coerenza interna, nel senso che riesce a dare una collocazione ad alcuni "tasselli" che, nonostante l'ampiezza e la scrupolisità delle indagini, permarrebbero diversamente inspiegabili». Non solo. Per la Corte, il suicidio del portiere di Prati non ha «posto fine al possibile sviluppo» delle indagini. Ciò che emerge chiaramente dal documento è la totale adesione del collegio giudicante alle ipotesi del pm, mentre al contrario gli elementi «prospettati dalla difesa non reggono a un serio vaglio critico». La pietra angolare del castello accusatorio è rappresentata dal cosiddetto «detective in provetta». Il Dna trovato sulla biancheria intima della vittima (secondo il pm saliva, per la difesa una sostanza biologica non precisabile), la contestualità del suo rilascio con il delitto e il fatto che se Simonetta fosse stata uccisa da qualcun altro si sarebbero dovute trovare altre tracce genetiche sugli indumenti, costituiscono un «elemento fortemente indiziante». Poi c'è la «contemporaneità» tra il (presunto Ndr) morso «e l'aggressione alla giovane», che trova «oggettivo riscontro» in un'altra ferita provocata dal tagliacarte e che ha le stesse caratteristiche medico-legali. Che a mordere sia stato Busco, per i giudici non ci sono dubbi, vista la peculiarità della lesione e le caratteristiche uniche della sua dentatura. Anche in questo caso i rilievi dei consulenti della difesa sono considerati «non di rado contraddittori». In più la persona vista dalla portiera Giuseppa De Luca quel martedì pomeriggio potrebbe essere proprio l'imputato, che è «privo di alibi» e ha tentato di crearsene uno falso anche usando testi che hanno mentito per coprirlo. E il movente? Il movente non c'è, ammettono i giudici, ma «lo spaccato dell'infelice rapporto che emerge dalle lettere della ragazza è compatibile con la presenza di Busco in via Poma». La dinamica disegnata dalle motivazioni è la seguente: Busco chiama Simonetta a casa all'ora di pranzo, la raggiunge più tardi in Prati, dove lei gli apre la porta e lo accoglie seminuda, cerca di avere un rapporto sessuale con la fidanzata, che, però, si rifiuta (e perché, allora, si era spogliata?). A questo punto, il giovane (che ha un carattere violento, ha sostenuto il pm) la stordisce con «un vigoroso ceffone» e, quindi, infierisce sul suo corpo «affondando più volte il tagliacarte», anche nella vagina. Una ricostruzione che appare, come minimo, illogica. Come il verdetto appare basato sull'esclusione di altri possibili colpevoli. È invece condivisibile l'osservazione dei giudici, quando dicono che «è indubbiamente molto anomalo» che Busco non ricordi con precisione i suoi movimenti nel giorno del delitto. Ma non è altrettanto «anomalo» condannare a 24 anni di galera una persona incensurata solo perché, a distanza di vent'anni, ha un vuoto di memoria?

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