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Un'ora di sfogo col pm e l'ufficiale

Il domestico Winston Manuel Reves

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«Grazie, mi avete aiutato a liberarmi da un peso che avevo dentro». Ha stretto le mani del colonnello dei carabinieri ed è scoppiato a piangere. È l'ultimo fotogramma di un assassino pentito, del domestico filippino Winston Manuel Reves, 41 anni, che per venti ha tenuto anima e corpo ancorati alla mattina del 10 luglio 1991, quando uccise la contessa Alberica Filo della Torre nella stanza da letto della villa all'Olgiata. Ha raccontato tutto ieri pomeriggio, in un'ora, dalla sua cella nel carcere di Regina Coeli. Intorno alle 16 ha chiamato i tre avvocati difensori - Matteo La Marra, Flaminia Caldani e Andrea Guidi - ha detto loro che era pronto a confessare il delitto ed è partita la chiamata al magistrato Francesca Loy. Poi l'altro squillo del pm al cellulare del comandante della sezione Omicidi del Nucleo investigativo di via In Selci, il colonnello Bruno Bellini: «Venga in carcere con me, il filippino ha deciso di parlare». È stato un tonfo al cuore per tutti e due. Poteva essere - ed è stato - il giorno in cui si metteva la parola fine a un giallo entrato nella letteratura del crimine più nero e dei misteri più fitti d'Italia. La pm e l'ufficiale dei carabinieri. Francesca Loy e Bruno Bellini. Sono stati i due confessori di Winston Manuel Reves. Lei, biondina, magra, sempre sorridente, disposta a rinunciare a un'ora di piscina per gettarsi nel mare di fascicoli che affogano l'ufficio. Lui, scuro di capelli, robusto, gli occhi incastrati nell'arco delle sopracciglia, lo sguardo di chi squarcia l'apparenza e rovista dentro. Il filippino stavolta non si è fatto pregare. «Sono stato io a uccidere la contessa. Quella mattina erano circa le 7.30. Per farmi coraggio ho bevuto un bicchiere di whisky. Ho preso il motorino, sono arrivato davanti alla villa della contessa. Ricordo che passai dal garage, ho salito le scale e bussato alla porta della nobildonna. Volevo chiederle di riassumermi». Il dopo non lo ricorda, non riesce a dirlo. La rabbia omicida che l'ha accecato vent'anni fa sembra che continui a tenere al buio quella zona della mente. Pm e ufficiale dei carabinieri incalzano: «La contessa ha reagito, ti ha provocato in qualche modo, ha cercato di spingerti fuori dalla sua stanza?». Il filippino riparte dal lenzuolo stretto attorno alla gola della vittima. «Ricordo che sono fuggito dalla finestra - continua - sono saltato giù e sono rimontato sul motorino. Nei giorni successivi ho sperato che qualcuno venisse ad arrestarmi. Ero angosciato, del delitto ne parlavano i giornali, le televisioni. Il ricordo della contessa non mi abbondonava mai. Con la seconda moglie ho avuto tre figli, la femmina l'ho chiamata Alberica a parziale risarcimento del dolore che ho provocato. Mi sono anche ammalato, ero finito sulla sedia a rotelle. Per un certo periodo sono tornato nelle Filippine cercando una cura al mio malessere». Ma era nell'anima. Per ripescare quel bisogno di pentimento seppellito in profondità ci sono volute la tenacia del vedovo della contessa, l'ingegnere Pietro Mattei e del Nucleo investigativo di via In Selci del colonnello Lorenzo Sabatino, coordinato dal Reparto operativo diretto dal colonnello Salvatore Cagnazzo. Ma soprattutto, è stata una frase il grimaldello che ha fatto saltare quel tappo di coscienza. Martedì scorso, il giorno del fermo, prima di finire in galera il filippino è stato portato nella caserma di via In Selci dove tra gli altri ha incontrato il colonnello Bellini, ha incrociato il suo sguardo e ha sentito le sue parole: «Winston, per te è finita, ti conviene parlare, ormai è chiaro cos'è successo quella mattina. È inutile che continui a tacere. Per te è finita». E lui ieri ha voluto ricominciare. «Non ce la facevo più. Grazie, grazie. A mia moglie raccontai del delitto ma lei non mi ha mai creduto. Adesso sono pronto a scontare la pena, è giusto che lo faccia, voglio cominciare ad avere una vita normale. Chiedo scusa agli italiani, al marito della contessa e ai figli della contessa». Manuel Winston Reves fu indagato pochi giorni dopo il delitto e interrogato una notte intera dai carabinieri di via In Selci. C'era qualcosa nella sua compostezza che non convinceva gli investigatori, convinti che chi entrò quella mattina nella stanza della contessa doveva essere una persona conosciuta. Una persona che nel viavai dei preparativi della festa che avrebbe dovuto celebrarsi nella dimora dell'Olgiata quella sera, doveva essere passata inosservata. E per questo gli inquirenti ascoltarono a lungo anche le altre due domestiche filippine di casa Mattei, Violeta e Rupe. Dalle due, gli investigatori dell'Arma hanno inutilmente sperato, con lunghi interrogatori, che arrivassero conferme alle loro ipotesi di lavoro. Ipotesi di lavoro, alcune mai confessate ufficialmente, e poi tanti indizi, nessuna prova decisiva e una grande determinazione. Ieri il finale.

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