Monologhi e silenzi nel film ispirato a Terzani
Gliultimi mesi di vita di Tiziano Terzani, grande giornalista e scrittore, che dopo essere stato condotto dalla sua professione quasi in tutto il mondo, spesso dove infuriavano le guerre, colpito da un male incurabile si era ritirato con la moglie nella sua casa in Toscana facendosi presto raggiungere dal figlio Folco, trapiantato a New York, per trasmettergli le sue più personali e profonde esperienze di vita. Una lunga, fitta serie di colloqui che il figlio, dopo la sua morte, ha raccolto in un libro intitolato "La fine è il mio inizio", come spesso il padre, ormai prossimo alla morte, affermava. Da quel libro, il film di oggi, realizzato da un regista tedesco, Jo Baier, noto soprattutto per documentari e film televisivi, e co-prodotto, con l'Italia, da una società tedesca vista la lunga attività giornalistica in Germania proprio di Terzani. Naturalmente, data l'origine del libro, hanno spazi predominanti i dialoghi, specie quelli che riescono a disegnare e ad approfondire il rapporto padre-figlio, non allontanandosi però mai da quella casa e dai monti attorno nonostante i tanti viaggi del protagonista nei Paesi lontani. Con questo senza togliere respiro al racconto perché l'accento è solo su quel rapporto tra un padre che ormai può limitarsi solo ad insegnare e un figlio teso ad apprendere fino quasi allo spasimo. In ambiti in cui, pur rinunciando alle cornici esotiche, si privilegiano gli esterni, l'aria aperta, la natura, chiamati a trasformasi via via nella vera cifra di un film che, pur rifacendosi a un viaggio verso la morte, vuole essere ad ogni svolta una salda e ispirata meditazione sui misteri della vita. Ce li trasmettono, con intimo fervore, Bruno Ganz, il padre, e il nostro Elio Germano, il figlio. Due generazioni di attori a confronto, due storie professionali in apparenza distanti fra loro, ma si equilibrano alla perfezione e addirittura si completano. Con finissime misure.