L'uomo sullo strapuntino era quasi un'istituzione

Erano verdi. Davanti saliva solo chi aveva la tessera. E dietro, seduto su uno strapuntino ripiegabile, c'era lui, il bigliettaio. Di fronte a sé aveva un blocchetto di tagliandi di carta sottile, color ruggine-chiaro e una spugnetta bagnata per inumidire il dito munito di cappuccio in gomma che strappava la carta. Il bigliettaio era più di un semplice autoferrotranviere, più di un banale vidimatore. Era un'istituzione. Il «passaggio» costava cinquanta lire, l'abbonamento mensile «intera rete», tremila. Il bigliettaio vendeva la sua «merce» con dignità e, a volte, anche con il lieve aristocratico sussiego del pubblico ufficiale che non era. Ma aveva molti altri ruoli non aziendali. Oltre a far pressione sui passeggeri «distratti» affinché cedessero il posto alla vecchietta di turno, a distribuire gli utenti all'interno del mezzo per sgombrare gli ingressi con la classica frase «Avanti c'è posto...», e a intervenire con decisione se una ragazza veniva molestata da qualche «pappagallo» o, peggio, da uno dei tanti laidi «manomorta» che approfittava della ressa per palparle il didietro, era anche di compagnia. In attesa di giungere a destinazione (una volta la macchina era un lusso e i mezzi pubblici erano usati da molti romani per spostarsi all'interno della città), e se, come spesso accadeva, il soggetto era disponibile, con lui si poteva ingannare il tempo chiaccherando del più e del meno. Per me, che ero un bambino, rappresentava una figura paterna, bonaria e tranquillizzante, che dava sicurezza e motivava il mio rispetto per gli «adulti» e per l'autorità in generale. Quando andavo alla fermata accompagnato da mia madre, lei mi affidava al dipendente dell'Atac come se fosse un mio fratello maggiore e gli raccomandava di farmi scendere quando ero arrivato a destinazione. Naturalmente, il bigliettaio aveva un ruolo fondamentale come deterrente per i «portoghesi», che c'erano pure trenta o quaranta anni fa. Con lui i furbi non avevano scampo. Le obliteratrici non esistevano. I viaggiatori, come dicevamo, erano obbligati a entrare dalla porta posteriore dell'autobus o del filobus (ve li ricordate? Se trovo chi ha avuto la malsana idea di abolirli, lo costringo a suicidarsi con il tubo di scappamento!) e a presentarsi al suo cospetto. Se qualcuno faceva lo gnorri e rimaneva in piedi in fondo al bus, bastava il suo sguardo severo a fargli cambiare subito idea. Altrimenti, il bigliettaio non aveva remore nell'indicarlo e, con un «dica...», gli ingiungeva bruscamente di «procedere» all'acquisto del tagliando. La figura che sta per essere parzialmente reintrodotta sui mezzi pubblici della metropoli era talmente cara agli italiani che venne celebrata in diversi film. Quello che la rappresentava meglio è senza dubbio «Avanti c'è posto» (appunto) di Mario Bonnard. Uscì nel 1942 e a interpretare il ruolo da protagonista era Aldo Fabrizi, che con la sua stazza serafica e la simpatia del popolano romano incarnava proprio quel tipo di personaggio di cui parlavamo. «Il film è il primo omaggio affettuoso al fattorino dell'autobus, campione della vita moderna...», scrisse il critico cinematografico Diego Calcagno. In realtà quello di Fabrizi era uno filobus, il termine «fattorino» non si usa più e quella «vita moderna» oggi sembra preistoria. Ma forse proprio per questo il ritorno del bigliettaio non si limita a sollecitare il nostalgico sorriso di chi ha memoria del «come eravamo». Restituisce, invece, un tocco di umanità ai nostri quotidiani pellegrinaggi metropolitani. In una società dove siamo tutti virtualmente iperconnessi e, nello stesso tempo, vittime solitarie del gelo tecnologico.