I pugni in tasca show
diMARIO BERNARDI GUARDI Prima metà degli anni Sessanta, una villa nella campagna piacentina, un gruppo di famiglia, Chiuso, malsano. La madre, vedova e cieca, immersa nei ricordi. E i figli. Quattro. Augusto è egoista e affettivamente «vuoto»: la casa-tana-galera non fa per lui, se ne vuole andare, ma da solo. Che gliene importa di Leone, il fratello ritardato? Già, che vive a fare quell'idiota?, pensa Alessandro, epilettico e in preda a morbose esaltazioni distruttive. Più che mai indifferente, la bella Giulia che confusamente anela alla libertà. La tragedia è nell'aria. In preda a una gelida furia, Alessandro ammazza la madre, poi fa fuori il fratello andicappato, cercando la solidarietà di Giulia. Ma lei aggiunge un fiore al cimitero domestico, lasciandolo morire quando è colto da una crisi. Davvero un pugno nello stomaco, il film «I pugni in tasca» di Marco Bellocchio. Quando uscì, nel 1965, fu subito scandalo. Quella famiglia di «mostri» - interpretati da Lou Castel, Paola Pitagora e Marino Masé - sconvolse un po' tutti. Quel deserto di valori parve intollerabile. Quella voluttà di sconsacrazione indignò. Quel nichilismo omicida fu visto come un segno dei tempi, una profezia di quel '68 che avrebbe devastato la «casa del padre». Ora, «I pugni in tasca» viene riproposto in versione teatrale: regia di Stefania De Santis e interpretazione di Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco). Dopo la prima nazionale a Pietrasanta, il 14, l'approdo al romano Teatro Quirino è previsto per il primo febbraio. Tornano dunque il buio del cuore e della mente, la claustrofobia, i labirinti, le ossessioni. Con Ambra e Pier Giorgio che mostrano di saper ben abitare «il deserto che cresce». Grazie anche a una regìa intensa e calibrata, capace di cogliere nei silenzi la stessa forza delle parole e dei gesti. Ma c'era davvero nel film e c'è adesso nell'opera teatrale la sofferenza-insofferenza che preannunciava l'esplosione del '68? Bellocchio qualche volta l'ha lasciato credere, ma oggi lo nega. Certo, nei «Pugni in tasca» c'è il sentimento di un'angoscia epocale, di una crisi che ti schiaccia. Ma i «mostri» non sono ideologici. Umani, troppo umani, disumani, li abbiamo accanto, come quei bravi «vicini», così buoni, così perbene, che a un tratto si rivelano spietati assassini.