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Belle e veraci: "Er calippo e a bira"

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Un fermo immagine del video

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Chissà come si chiamano, queste due ragazze, così appariscenti e carine, esplosione di verace bellezza tirrenica, intervistate da un cronista malizioso di Sky tg24 a proposito del caldo. Chissà se sono al corrente che attorno alla loro intervista è andato in rete l'ennesimo dibattito su Nord e Sud, cafoni e coatti, slang e dialetto, Italia sì Italia no, terra dei cachi e terra dei caccolari. Chissà, soprattutto, se sanno che in poche ore il video della loro intervista è stato sottotitolato per i non romani e visto da centinaia di migliaia di persone. Sono delle dive di YouTube, dei must già rubricati nell'imperdibile e taggati a iosa… ma certo che lo sanno, qualche amico le avrà chiamate apostrofandole: «A dive»… le avrà chiamate, certamente, e ora staranno a crogiolarsi appresso agli 800mila e passa contatti della loro performance. Ma che hanno fatto di tanto speciale e fantasmagorico queste due, di cui purtroppo ignoriamo il nome e dunque chiameremo, in pieno luogo comune volgarese, Jessica e Samantha? Hanno messo in scena un dialogo surreale, a tratti esilarante. Per chi ha memoria cafonal, questo video annichilisce un cult del genere, «Patrizia» di Tony Tammaro, girato sulle spiagge domiziane. Questa intervista rappresenta una specie di bignamino ben fornito di ciò che, nello slang romanesco, va sotto la definizione di coattese, la lingua strascicata e immaginifica che lavora per metafore e oscenità, crasi e diminutivi, sinonimi e neologismi, la lingua che parte dalle borgate, arriva in tv nelle fiction e nelle antiche gag del Lorenzo di Corrado Guzzanti, viene frullata nelle barzellette tottesche e ritorna nel gergo giovanile in forme ancora più paradossali.   I romani col naso all'insù di solito definiscono la patria di questa neolingua, che - si ricorda sempre, giustamente - poco o nulla ha a che fare col dialetto romano originale del Belli e di Trilussa, con la sigla epitetale di Coatia, subito stabilendo che il coatiese, di cui il capitano della Roma è testimonial globale, non può fagocitare l'immagine e il timbro linguistico dell'intera Capitale. Ma veniamo al benedetto video, che ce ne consegni altri della stessa risma, YouTube. Insomma, le nostre Jessica e Samantha, che certo non sfigurerebbero tra il pubblico di qualche programma televisivo, al netto del chewing gum, vengono interpellate su quanto caldo fa a Ostia. E la prima, J., confessa che «cioè, stamo tipo a fà ‘a colla qui». Il mefistofelico sottotitolatore esagera, traduce con «abbiamo la pelle adesiva», esagera, però il senso è che fa davvero caldissimo e la pelle s'appiccia, presumiamo, al telo da mare. E poi J. scruta la telecamera, sorride in un finto imbarazzo e chiede: «Ma che me stai a ripijà?», e confessiamo che questa romanizzazione del tele verbo “riprendere” è una novità assoluta anche per le nostre orecchie. E certo, a Ostia fa caldo, ribadisce J., ce serve 'n doccetta (notare l'uso costante del vezzeggiativo, lo stesso che ogni romano come si deve applica ai vari Mariuccio, Angelino, Paoletta, poi resi coi vari Mariù, Angelì, Paolé eccetera), lei e l'amica sua, pur abbronzate come si deve, resistono al massimo un'oretta e poi devono correre a farsi il bagno «sinnò te pija ‘a capoccia»: non si riferiscono a una pallonata, ma al solleone. Dunque, tra doccette, capocce e colle, si stabilisce definitivamente che fa tanto caldo. Allora, ragionando sui rimedi, entra in gioco Samantha, l'amica. E spiega che, oltre al Calippo, nella veste di ghiacciolo rinfrescante, «se semo prese la bira» (da cui l'antico detto romanofono: bira con due ere sennò è erore). Ah, la bira. Passa qualche secondo, il video finisce e comincia un dibattito infinito tra internauti. Dei commenti, alcuni volgari alcuni colti, altri strepitosi, data la quantità, e sui conflitti che hanno scatenato, non si può dar conto. Se però, per assurdo, volessimo avere pronto per l'uso un catalogo veloce di tutti i giudizi e pregiudizi che tagliano l'Italia in lungo e in largo, e scavano fossati di identità e appartenenze all'intero delle città, figuriamoci in una metropoli come Roma, abbiamo a disposizione un documento prezioso di cui possiamo solo farvi un riassunto per coordinate: 1) Quanto sono cafoni i romani vs sono solo delle povere abitanti della Coatia, e poi pensate a quanto sono cafoni i dialetti del Nord; 2) «MA PORC!!!! è? possibile uno spreco simile di figa??!!» vs. «Meravigliose! A me ricordano le ragazze di non è la Rai»; secondo un altro, «mò stè 2 li vedremo in "uomini e donne", la de Filippi se chiama subito!!!». 3) «Molto meglio la semplicità di queste ragazze che i film di Moccia che rincretiniscono gli adolescenti» vs. «di conseguenza vince Berlusconi regnando nell'ignoranza di un Popolo , narcotizzato dai? media , dalle droghe e dall'alcol»; 4) Per ultimo c'è il dibattito tra i romani che si vergognano di J. e S., cattivo biglietto da visita e specchio di una degradazione antropologica, e quelli che ne difendono la sana veracità di ragazze del popolo, belle come mamma le ha fatte. E dunque il quesito finale è: il coatiese ha diritto o no di cittadinanza? Si tratta, parlando di J. e S., di due casi disperati da sottoporre a un pedagogismo feroce o due gemme disarmanti di sincerità linguistica che vanno accolte nel mare magnum della romanità, dove c'è anche posto per la gente di Coatia? Ma sì. La lingua è libera come la religione, in Italia, e il coatiese occupa già un posto di rilievo nel vocabolario di giovani e meno giovani. Lasciamole in pace, J. e S., non gli si carichi addosso il peso della fallita unità d'Italia o dei retropensieri di nordisti, sudisti e centristi. C'ha ragione Vata 85, nostro vate occasionale: «Ma m'importa una pippa se parlano dialetto o no l'importante è che sono bone!». Libero coatiese in libero Stato, e libera bonazza in libera Roma.

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