Le nostre frontiere quotidiane
Non montiamoci la testa. Dovessero buttar giù il «muro» di Roma, non arriverà un nuovo Rostropovich a suonare il violoncello sulle macerie, come accadde a Berlino. Al massimo qualche abitante della zona soffierà nella vuvuzela. L'insopportabile spernacchio della trombetta sudafricana sarebbe la perfetta colonna sonora per un fatto di cronaca che si può leggere come una versione "on-the-road" dei più classici bisticci condominiali, quelli dove il vicino del piano di sopra sembra che giri in skateboard, e quello della porta accanto smartella all’alba per rinnovare la pinacoteca del salotto. Certo, piazzare un manufatto in cemento in mezzo alla carreggiata non parrebbe un segno di pace e di accoglienza mutuato dal folklore artico delle popolazioni Inuit, che ti ospitano nell'igloo e se ti senti malinconico ti offrono la moglie. A prescindere dai torti e dalle ragioni nella vicenda di Massimina, il «muretto» segna in modo lampante un confine di ostilità, dove qualcuno difende - italianamente - il proprio «particulare», e qualcun altro rivendica più ecumeniche ragioni. In formato ridotto, evoca comunque ben più tragiche strutture imposte dalla Storia. Solleva pensare che non ci sarà bisogno di un ponte aereo per le popolazioni della periferia capitolina interessate dal dissidio, come nella Germania post-bellica. O che non ci si trovi di fronte a un odio alimentato dalle differenze di fede, come a Belfast, con quei blocchi di cemento - denominati ironicamente "peace line" - che ancora ricordano i giorni sanguinosi dei "troubles" fra cattolici e protestanti. O che non sia spuntata la gramigna dell'intolleranza contro gli immigrati, come in quella via di Padova. O, ancora, che non si tratti di una costruzione di "sicurezza" pattugliata dai soldati, come quelle volute dagli israeliani a nord di Gaza e alla frontiera con l'Egitto. Conforta, infine, che la querelle romana non sia neppure lontanamente apparentata con il dramma che visse Gorizia, quando una linea di demarcazione (passava anche in mezzo al cimitero) tagliò in due la città fra l'Italia e la Jugoslavia titina. No, qui siamo al "nun je la facevamo più", al rimedio estemporaneo dettato dall'esasperazione, al "passate da n'antra parte". Una bega metropolitana che andrà risolta a carte bollate, mentre ovunque nelle proprie strade Roma erige altri invisibili «muri», a migliaia. Non è forse simile a una impenetrabile barriera di laterizi «quel» camion che vi impedisce di passare oltre nella viuzza del centro? Se ne sta lì, piazzatissimo sull'asfalto come un grizzly in letargo, e solo dopo una mezz'oretta di fanfara con i clacson (ah, le vuvuzela...) spunta da un negozio l'autista che quasi rimprovera gli automobilisti ormai votati al piano criminoso: «E sto a scaricà!». Poi, mulinando un braccio per aria riparte, offeso dalla scarsa considerazione altrui per il suo lavoro. Ma nessuno è esente da responsabilità, nel gioco del «muro»: tutti contribuiscono a portare mattoni. Sfiniti dal traffico e dal ritardo, in tanti parcheggiano dove non si può. Sopra gli scivoli per i disabili, spesso: e ruote e cofani diventano insormontabili barriere architettoniche. Anche gli scooteristi cercano di arrangiarsi, ma il più delle volte non sanno dove buttare il mezzo, con le strisce dedicate alle due ruote zeppe di car e minicar. Allora si va sui marciapiedi, costringendo anziani e mamme con il passeggino a fare slalom tra i lucchetti. C'è un muro di modeste dimensioni a Massimina, quadrante nord-ovest della capitale. Ma almeno lo vedi. In quelli immateriali, disseminati in tutta Roma, ci si sbatte contro ogni giorno. E ti rimangono addosso i lividi dell'inciviltà.