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Incubo serial killer: 10 delitti irrisolti

Il dirigente della mobile Vittorio Rizzi

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L'ombra di un serial killer si allunga nei dintorni di Roma. In due anni avrebbe ucciso dieci volte, nell'area di Tivoli. Soprattutto persone anziane o malate, decessi archiviati senza sospetti, avvenuti per «cause naturali» o incidenti domestici. L'identikit è quello di un operatore sanitario «angelo della morte»: medico, infermiere oppure badante. Una persona che assiste gli altri e che per un rovescio dell'anima anziché prestare aiuto toglie loro la vita nel modo più subdolo, quasi invisibile. Probabilmente è un uomo, anche se il genere di vittime e l'"arma del delitto" nella storia criminale risultano più comuni a serial killer donne. Quest'insospettabile assassino ogni volta avrebbe lasciato una "firma", un dettaglio in cui ha lasciato riflessa la sua follia omicida, e che va a comporre il suo modus operandi, sempre quello. A trovare il bandolo maledetto e a ribaltare le «tragedie naturali» in assassinii è stata la squadra «Cold case» (Casi freddi), voluta dal capo della Squadra mobile Vittorio Rizzi: équipe di venticinque investigatori ed esperti informatici, psicologi e scientifici che opera nell'ambito della sezione Omicidi diretta da Stefano Signoretti. Anche i segugi della Questura hanno il loro modus operandi. Lo ha spiegato l'ispettore capo della sezione, Antonio Tricoci: «Studiamo i fascicoli, coinvolgiamo anche professionisti che all'epoca dei delitti erano consulenti tecnici della procura. I primi tempi ci siamo trasferiti negli archivi della Questura e della Procura». Un taccuino di marcia che avrebbe funzionato anche in questa occasione. Infatti, andando a rivedere quegli strani casi, quelle morti ai confini del verosimile, sono saltati agli occhi elementi ricorrenti nelle scene del delitto e altre impronte genetiche rilevate dalle nuove tecniche scientifiche. Tratti che hanno disegnato il profilo del serial killer. Gli investigatori dicono di essere alle prime battute dell'indagine. Rivelano poco ma assicurano che la persona ritenuta responsabile di quelle morti è sotto controllo: «È stata disinnescata». Lo scenario che si lascia intendere è che la persona finita sotto i riflettori della polizia non sia un pericolo sociale, come se al momento non fosse in grado di minacciare, di agire come avrebbe fatto in passato. Ieri mattina il tam tam delle indiscrezioni, dilagate anche a palazzo di Giustizia, parlava addirittura di una richiesta di arresto già confezionata dalla polizia e ferma sul tavolo del pubblico ministero, prima di essere presentata al giudice per le indagini preliminari. Nel pomeriggio dalla Questura hanno smentito. Il questore Giuseppe Caruso e il capo della Mobile hanno confermato l'indagine, i contorni essenziali ma niente di più. L'«angelo della morte» al quale la polizia sta cercando di tagliare le ali ricorda un altro serial killer, un ex infermiere dell'ospedale di Albano Laziale, Alfonso De Martino, oggi di 69 anni, arrestato nel giugno '93 e condannato all'ergastolo per aver ucciso tre malati iniettando loro uno sostanza velenosa nelle vene: un farmaco a base di curaro, il Pavulon. La personalità del sanitario risultò anche più fosca. Prediceva il giorno e l'ora esatta della morte dei pazienti del suo reparto ed era solito andare in giro con vistose collane con medaglie raffiguranti teschi e teste di caproni o con anelli grossolani. Secondo l'accusa l'ex infermiere avrebbe fatto parte di una setta satanica di cui però non è stata provata l'esistenza. Un altro caso che gli investigatori della Cold case si dicono vicini a risolvere è l'omicidio di un omosessuale, avvenuto a Roma alla fine degli anni '90, periodo in cui la comunità gay ha visto cadere sotto mani assassine altri appartenenti. Alla svolta si sarebbe arrivati utilizzando il metodo americano del case linkage, analizzando una serie di delitti, individuando indizi che passo dopo passo hanno portato alla porta di casa del responsabile. In questa vicenda non si parla di un serial killer dei gay, ma soltanto del presunto colpevole dell'omicidio di un omosessuale. «Non tutti i casi si possono risolvere - sottolinea Rizzi - per questo prima di tutto facciamo uno studio di fattibilità, per verificare in quali si sono aperte condizioni nuove o la criminalistica offre elementi in più nella capacità di rielaborazione dei dati, nel campo della medicina legale, informatica, psicologica criminale o biologia forense, che potrebbero portare ad una risoluzione».

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