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Romano o romanesco? Occorre sciogliere questo primo, sostanziale, dubbio per comprendere davvero se esiste, come e qual è il dialetto della Città Eterna

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Proprioquello della Capitale è l'unico tra tutti gli idiomi locali ad avere un appellativo diverso da quello di chi lo parla. Toscano, genovese, napoletano, sardo, indicano indifferentemente sia il nativo di una città o di una regione sia il linguaggio con il quale si esprime. È questa solo una delle tante e interessanti riflessioni sul dialetto «romanesco» di Fernando Ravaro contenute nel suo «Dizionario romanesco - Da "abbacchià" a "zurugnone" i vocaboli noti e meno noti del linguaggio popolare di Roma» edito da Newton Compton editori, impreziosito da un'introduzione di Marcello Teodonio. Da sempre considerato rozzo, crudo, corrotto, come lo definì Dante nel De Vulgari eloquentia, il «romanesco», come tutte le espressioni linguistiche, è frutto della storia e della cultura di un popolo. E il popolo «romano» dall'Impero ai giorni nostri è sempre stato distante dalle definizioni convenzionali per il suo carattere «universale». Ecco allora che «romano» e «romanesco» sono stati utilizzati per distinguere le classi sociali capitoline dall'Evo moderno alla caduta dello Stato Pontificio: nobili, alta media borghesia al seguito della corte papale e il volgo, bottegari, artigiani, facchini, marinai, osti. Romani e romaneschi appunto. Unico caso in Italia, a Roma si parlavano due linguaggi: il latino e l'italiano toscaneggiante, come sottolinea il Ravaro, e quella del popolo ignorante definito da Giuseppe Gioacchino Belli, il primo e forse ancora l'unico che non si limitò a scrivere in romanesco ma a farne oggetto di studio fissandone le regole grammaticali ed elevando quel dialetto non riconosciuto a idioma: «una favella tutta guasta e corrotta, una lingua infine non italiana e neppure romana, ma romanesca». Una lingua appunto. E come tale espressione «sonora» della cultura e dell'anima di un popolo. Con la sua ignoranza, certo ma anche con la saggezza e la lungimiranza popolari. E con tutta quella «non curanza» del popolo romano dovuta probabilmente alla consapevolezza di essere «diverso» dal resto del mondo, di essere «romano» appunto. Ecco allora che anche l'aspetto religioso, così immanente nella storia e nella cultura romana si trasforma in «romanesco» e il De profundis diventa semplicemente «de profunni» e nella sua locuzione quotidiana «recità er deprofunni», significa esprimere un rammarico per qualcosa che si è perduto, come ad esempio un guadagno sfumato. Un rapporto, quello del «romanesco», con religione e politica sempre presente. «Tirà l'anima co li denti», il detto riportato da Dello Mastro, per indicare qualcuno cagionevole di salute o, ancora, «fà la lupa de Campidojo» che indica l'andare avanti e indietro per smaltire la rabbia. Ma soprattutto, per capire l'anima romanesca e la sua filologia comica, come la definisce Teodonio nell'introduzione al Dizionario, occorre rifarsi al sonetto del Belli «Le zzampane»: «Bbé se dirà zzanzare pe le stampe; ma ssò zzampane: eppoi santa Luscia! nun je le vedi llì ttante de zzampe?». Insomma, la forma sarà rozza e romanesca ma la sostanza è certamente romana.

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