Via Poma, fu lite sull'anticoncezionale
L’ultimo giorno di Simonetta. Un amore non corrisposto. I soliti sospetti. Potrebbero essere altrettanti «titoli» dell’udienza di ieri, la seconda del processo che la terza Corte d’Assise ha tenuto nell’aula di Rebibbia e che vede sul banco degli imputati l’ex fidanzato della vittima Raniero Busco. La madre Anna Di Giambattista, la sorella Paola e il compagno di allora e oggi, Antonello Barone, hanno ricostruito la giornata del 7 agosto 1990, quando la ragazza con le scarpe da tennis e l'ombrellino rosa venne massacrata con 29 coltellate negli uffici degli Alberghi della Gioventù in via Poma. Una ricostruzione commossa e commovente che, però, non ha aggiunto molto a quanto già verbalizzato negli ultimi vent'anni dai pm nella lunga «staffetta» giudiziaria dell'inchiesta. Obiettivo dell'accusa, rappresentata da Ilaria Calò, è dimostrare che la saliva trovata sul reggiseno e il presunto morso sul capezzolo sinistro di Simona sono frutto dell'aggressione letale portata a termine da Busco quel maledetto martedì. Lui non l'amava. Lei sì. Lui non voleva che lei andasse in vacanza con la sua comitiva di amici in Sardegna, lei ne aveva sofferto, come soffriva di quel rapporto sbilanciato. Per lei un grande amore, il primo importante della sua vita, che però era unilaterale. Per lui, all'epoca un ragazzo spensierato, Simona era una come tante e non la donna del futuro. E poi la storia dell'anticoncezionale: Raniero faceva sesso «non protetto» pensando che lei già la prendesse (ma non le aveva chiesto niente) mentre la vittima aveva deciso di «premunirsi» solo alla fine di luglio, aveva la pillola nella borsetta ma aspettava l'inizio del ciclo mestruale per cominciarla. La tesi accusatoria, insomma, inizia a delinerasi con chiarezza: Raniero, che già «la maltrattava», scopre che Simonetta non ha adottato alcuna precauzione nei rapporti intimi, che potrebbe anche essere rimasta incinta (ma non è così) e si arrabbia. La raggiunge nel rione Prati, i due litigano, lui la colpisce... Una ricostruzione tutta da dimostrare, che ieri il pm Calò ha cercato di puntellare con le tre testimonianze «familiari». La madre della vittima, infatti, ha sostenuto con veemenza che la figlia aveva una cura estrema del suo corpo e si cambiava spessissimo, anche due volte al giorno. Quindi non avrebbe mai indossato lo stesso reggipetto. Ed è un dettaglio importante, perché su quel reggiseno è stato isolato un dna che apparterrebbe a Busco. Lui, «a verbale, ha replicato spiegando di aver avuto sabato 4 agosto un rapporto sessuale con Simona. Quindi quella traccia potrebbe risalire a tre giorni prima del delitto. O alla sera precedente, quando i fidanzati si sono rivisti per una mezzora. Ma questo se l'indumento fosse stato lo stesso e non fosse stato lavato, considerando che i periti della procura hanno provato a metterne uno della stessa stoffa in lavatrice e la saliva è scomparsa. Poi c'è la questione del morso sul capezzolo. Anna Di Giambattista ha raccontato che domenica 5 agosto ha visto Simonetta nuda in bagno ed è certa che non avesse quel segno. Di conseguenza quella che il medico legale Carella Prada stabilì essere («molto probabilmente») un'ecchimosi provocata da un morso risalirebbe sempre al 7 agosto. Per il resto i tre testi hanno raccontato, ognuno dalla sua prospettiva, il «film» di quel martedì di angoscia, sangue e dolore. Paola che accompagna Simonetta alla metro alle 15, lei che non si fa sentire per sapere se il padre le ha fatto riparare la «126», la madre che si preoccupa, Paola e Antonello Barone che vanno dal datore di lavoro della vittima, Salvatore Volponi, e con lui e il figlio Luca cercano di capire dov'è l'ufficio della ragazza. Infine, l'arrivo in via Poma, le titubanze della portiera nell'aprire la porta, la macabra scoperta del cadavere nell'appartamento al terzo piano. Paola che urla. Paola che piange. L'arrivo della della polizia. L'appuntamento è per il 24 febbraio nell'aula-bunker.