Quei nuovi dirigenti del Pd
Non ci sono più i militanti di una volta, verrebbe da dire. Dal mitico “compagno G” (Primo Greganti), che, noncurante del ridicolo, sosteneva fosse sua la montagna di soldi che aveva maneggiato, senza che neanche un tallero fosse riferibile agli affari illeciti del Partito Comunista, naturalmente spalleggiato dal citato partito, che, però, non lo espulse, al ciarliero “compagno B” (Luca Bianchini), che non pago d'essere finito in galera, accusato di diversi stupri, e di essere stato espulso, ora sostiene d'essere vittima di un complotto, avendo egli scoperto gli affari illeciti del Partito Democratico romano. Due cose vanno dette subito. La prima è che la presunzione d'innocenza vale anche per chi è accusato di stupro. La seconda, però, che le credenziali di Bianchini non sono delle migliori. Non solo per il reato, infamante, che pesa sulla sua testa, ma anche perché si ritrova una coscienza piuttosto originale, sicché il presunto malaffare non lo denuncia quando svolge un'attività politica, ma quando, per altra ragione, è ospite delle patrie galere. Fatte queste premesse, va anche detto che Bianchini non era un qualsiasi militante, un compagno che i vertici, almeno quelli romani, potevano non conoscere. Era il segretario del Pd nel quartiere Torrino. Organizzava le cene per raccogliere quegli stessi fondi che oggi dice essere finiti nelle tasche private di alcuni candidati, salvo poi falsificare il bilancio finale, per far tornare i conti. Teneva i contatti e organizzava quei comitati di cittadini impegnati a protestare contro imprenditori da cui, dice, quegli stessi candidati prendevano quattrini.La sua denuncia, il suo descrivere la “macchina politico affaristica”, non possono essere presi sottogamba, tanto più che indica nomi, cognomi e circostanze specifiche. Quindi, ora la palla passa alla magistratura, affinché faccia luce, così come anche ai vertici del Pd, affinché chiariscano, almeno a se stessi, se avevano promosso a segretario un probabile stupratore e sicuro diffamatore, oppure un compagno che, trovandosi in difficoltà e sentendosi abbandonato, ha deciso di vuotare il sacco. Per parte nostra, non deflettiamo dalla condotta di civiltà, quindi ribadiamo che i processi non si fanno né sui giornali né in piazza. Siamo sempre stati convinti, al contrario di altri, che il sospetto non sia affatto l'anticamera della verità, ma, semmai, il corridoio verso la barbarie. Qualche volta siamo stati colti noi dal sospetto, che certa ansia di verità sia non solo politicamente indirizzata, talché la giustizia sia più guercia che cieca, ma disgraziatamente limitata alle indagini preliminari, salvo inabissare nel dimenticatoio ciò che era già costata la reputazione di alcuni. Contiamo, quindi, che le cose vadano, adesso, nell'unico modo in cui devono andare: seguendo ciò che la legge prescrive, senza esitazioni e fino in fondo. Augurandoci, naturalmente, che la nostra vita politica non debba mettere nel conto una nuova offesa alla pubblica credibilità.