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Sui rifiuti niente Iva Ma lo Stato la pretende

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Ci ha provato la Cassazione a certificare che sulla Tariffa dei Rifiuti pagata dai romani l'Iva al 10% non va applicata. Poi è arrivata la Corte Costituzionale che ha ribadito che i costi richiesti sono "tasse" esenti da imposta. segue a pag.  Ma lo Stato continua a incassare perché non sa come coprire il mancato gettito. Insomma dopo l'ultimo grado di giudizio che ha certificato che sulla Tariffa Rifiuti pagata dai cittadini alla aziende di pulizia l'Iva al 10% non va applicata. E la la parola della Corte Costituzionale che dovrebbe essere quella definitiva sull'interpretazione della legge nazionale. E che ha spiegato nella sentenza del 24 luglio 2009 che ha stabilito che: «sia la Tia (Tariffa d'Igiene Ambientale) che la Tarsu (tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani) sono "tasse" e non "tariffe" e non sono quindi assoggettate all'Iva (applicata in bolletta al 10%)», nulla è cambiato. Lo Stato ha continuato a incassare la tassa aggiuntiva rimasta a campeggiare in bella mostra sui bollettini di pagamento. Inutile scomodare il fatto che molte società, in prevalenza di proprietà dei Comuni, avessero cambiato la dicitura da Tassa a Tariffa sulla bolletta. Troppo semplice secondo la Corte. Che infatti ha spiegato nella sua sentenza che questo sarebbe possibile solo se le aziende di pulizia applicassero non la Tariffa di igiene ambientale ma la Tariffa integrata ambientale. Stessa sigla (prodigi del burocratese) ma presupposti di funzionamento completamente differenti. Solo quest'ultima consentirebbe di applicare l'ulteriore balzello della 10%. Una soluzione all'apparenza semplice ma non troppo. La Tariffa integrata che è prevista da un decreto legislativo del 2006 non ha ancora trovato applicazione perché non c'è ancora il decreto ministeriale per attuarla. Ergo, tutte le voci che sono utilizzate nelle fatture inviate ai cittadini e allae inprese, a prescindere da come sono chiamate, in realtà sono tasse e dunque non assoggettabili a Iva. Chiara resta dunque la possibilità di un ricorso da parte degli utenti per percepire quanto indebitamente pagato. Una cosa semplice anche questa solo a parole. Non è chiaro infatti a chi indirizzarlo. L'ente pubblico si chiama fuori. Nel sito dell'Ama ad esempio c'è scritto: «Sull'importo della bolletta viene applicato il 10% obbligatorio di IVA come indicato dall'Agenzia delle Entrate con risoluzione n. 25/E del 5 febbraio 2003 e risoluzione del 17 giugno 2008 n. 250». Come a dire: noi incassiamo per conto dello Stato, devolviamo le somme all'agenzia delle entrate e facciamo solo la riscossione. Ecco trovato l'altro capo della matassa dunque: il fisco. Che lungi dall'applicare le regole si limita a incassare per conto dello Stato. Già è la legge che non ha ancora chiarito come applicare correttamente la sentenza della Consulta. Lo stallo ha una ragione precisa. Sempre la stessa. Come coprire il buco che si aprirebbe nel bilancio statale se il 10% venisse a mancare. I fondi sono pochi e la copertura non semplice da trovare. Lo ha spiegato lo Dipartimento delle Finanze in una recente richiesta da parte dei deputati alla commissione finanze della Camera. Se si realizzasse il principio enunciato dalla Consulta si porrebbe il problema della copertura finanziaria dei mancati introiti erariali derivanti dal non assoggettamento ad IVA della TIA stessa e alla definizione di una procedura che semplifichi le procedure di rimborso agli utenti dell'imposta addebitata illegittimamente. Insomma la ragione degli utenti c'è ma per ora sono sacrificate sull'altare della crisi delle casse statali. Pertanto tutti coloro che avessero indebitamente pagato l'imposta hanno diritto ad essere rimborsati. Attenzione però: l'esenzione al pagamento dell'Iva si riferisce solamente alle fatture degli ultimi 10 anni Per ora dunque occorre tenere i bollettini da parte e preparare, solo scrivere per adesso, una richiesta di rimborso quantificando il dovuto. In base alle medie tariffarie registrate nell'ultimo rapporto governativo sui rifiuti, il rimborso medio per famiglia in Italia varrebbe circa 360 euro (e fino a 3750 per le imprese). Non poco. Per ora non c'è speranza.

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