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Mafia e provincialismo "Addio alla Dolce vita"

Il Cafè de Paris di via Veneto sequestrato dai carabinieri del Ros e dalla Guardia di Finanza

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«La Dolce vita era già mezza finita, ora le notizie sulle presunte infiltrazioni dell'ndrangheta hanno dato la bastonata finale». È sconsolato l'imprenditore Stefano Todini, rampollo di una famiglia legata ai fasti del Cafè de Paris, il noto locale di via Veneto oggi ritenuto nelle mani della mafia calabrese. Il 21 scorso il Tribunale di Reggio Calabria ha firmato il sequestro di diversi ristoranti della Capitale (tra cui il Cafè), sostenendo che siano della 'ndrangheta, della cosca degli Alvaro, affidadati in gestione a teste di legno. Nel caso del Cafè de Paris a Damiano Villari, ex barbiere di Santo Stefano di Aspromonte. Todini, lei non ha mai sospettato di Villari? «No. Mi è stato presentato da Severino Lepore, dell'associazione "Via Veneto". Era il gestore del bar California, in via Bissolati». E poi? «Il prezzo fissato era poco più di 2 milioni, e non è vero che alla fine del 2008 ho ricevuto da Villari 5 milioni. Al netto delle spese dovevo ricevere 900 mila euro». Però? «A un certo punto Villari mi ha detto che aveva qualche difficoltà e che mi avrebbe dato il 20% del locale. Da socio, però, non ho mai ricevuto comunicazioni, convocazioni». Tornerebbe a guidare il Cafè? «No. All'epoca avevo progetti di rilancio. Ma qui è difficile fare l'imprenditore. C'è un provincialismo assoluto».  E ora di cosa si occupa? «Importo carne dall'Argentina, ho qualche interesse nel settore immobiliare. Ma la mia soddisfazione è l'agricoltura, la produzione di vino. Ho un'azienda a Todi dove imbottiglio del bianco e del rosso. Il bianco è il preferito, è un Grechetto. Il nome? "Il bianco del Cavaliere", ma non Berlusconi. Mio padre era cavaliere del lavoro».

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