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Dormono ancora alla stazione Ostiense i ragazzi afghani

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Chisotto le grate a terra, chi a ridosso del muro, chi a pochi metri dalla banchina dei binari. Hanno tra i 15 e i 17 anni. Dicono di essere fuggiti dai talebani. Parlano di arresti, repressione, incrociano i polsi e mimano le manette. Dormono sotto le reti metalliche, quelle che si calpestano sui marciapiedi temendo che cedano al prossimo passo: le hanno sollevate sistemando a un metro e mezzo più sotto materassi e coperte sopra lo sporco. La maggior parte di loro però dorme all'aria aperta, avvolti nella lana come bozzoli. Non sono gli stessi ventiquattro trovati due giorni fa dagli agenti della Polfer e accolti nei centri di Comune (in 18) e Provincia (gli altri 6). Ieri notte ce n'erano altri, oltre una ventina tra afghani, iraniani e pachistani. Non tutti possono stendersi dove vogliono. Le linee geografiche che segnano i confini dei loro Paesi segnano anche le divisioni che vanno rispettate nei luoghi di fortuna dove sono immigrati. Iraniani e indiani dormono davanti la volta d'ingresso della fermata della metro «piazzale dei Partigiani». Sono incastrati tra i vasi e il muro. Gli altri, afghani e pachistani, occupano posti più riparati. Alcuni sono allineati l'uno accanto all'altro a ridosso del muro sotto i portici dello scalo. Altri invece sono distesi in fila indiana su una fettuccia di erba tra il complesso della stazione e il parcheggio all'aperto gestito dall'Immobilmec srl. Di fronte ci sono i binari. Alle spalle le auto che corrono su piazzale 12 Ottobre 1492, data di scoperta dell'America. Per questi afghani, Roma è davvero la terra da sogno. Lo dicono Ullah, Sarzan e Raiman quando si svegliano alle 7, con un orologio biologico sincronizzato qualche minuto prima che la guardia giurata apra la porta laterale e dia loro il buongiorno: «Forzaaa, allora? Dai su, forza». Vuol dire che devono andarsene. Si arrampicano sulla rete, scavalcano e sono in strada. Le coperte restano lì. Chi non si fida solleva i tombini e le accartaccia in quel cubo di sottosuolo. Nessuno parla italiano, tutti un inglese arrangiato. Gli afghani in comune, oltre la nazione dove sono nati, hanno il mese di viaggio che hanno dovuto affrontare per andarsene da casa: macchina, nave, treno. Dall'Afghanistan all'Iran, fino in Turchia, risalendo la Grecia e poi su per l'Italia. Raiman, 17 anni, è il più sveglio, è di Kabul. «Da quanto tempo sono qui? Tre giorni. Che farò? Non lo so. Che faccio per vivere?». Non risponde, il vigilante li incalza: «Forzaaa». La sera alcuni volontari passano in piazzale dei Partigiani e distribuiscono pasti. Ullah, 16 anni, di Tora Bora, ricorda spesso la Grecia, per paura. «La polizia mi ha picchiato, mi chiedevano soldi». Allunga il braccio e lo ruota. Si sento croc croc. «Me lo ha fatto la polizia. A Roma? Sto bene. Qui non mi dice niente nessuno». Invece c'è chi parla. Lo ha fatto di mattina presto, quando ancora gli afghani dormivano. Si chiama Lanfranco Fioravanti, 74 anni, e vive da queste parti. «È una vergogna - dice - non se ne può più. Una volta uno di loro mi ha anche sfilato il braccialetto senza che me ne accorgessi. Una volta ero fascista. Ora non più. Sono nazista: capisco chi prende la tanica e dà fuoco». Il sindaco Gianni Alemanno commenta la presenza dei ragazzi afghani come «un fatto grave». L'assessore comunale alle Politiche sociali, Sveva Belviso, smentisce che qualcuo possa dormire nei tombini: «Sono troppo piccoli e i ragazzi troppo grandi». La stessa cosa precisa il capo della Polfer Lazio, Carlo Casini. Una considerazione la fa il direttore di Save the Children, Vittorio Neri: «La presenza dei minori afghani a Roma è aumentata negli ultimi anni, fino a costituire oggi uno dei gruppi di minori stranieri non accompagnati più numerosi nella Capitale».

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