Sgominata la gang dei trafficanti di pile
Riciclavanole vecchie pile, quelle per orologi e svegliette, grandi come bottoni, e ne estraevano la polvere d'argento: buttavano il contenitore metallico e rivendevano la polvere preziosa. Un affare di migliaia e migliaia di euro. La gang di cinque romani, tutti denunciati a piede libero per associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e falso, dopo un anno di indagini è stata sgominata dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Roma comandato dal capitano Pietro Rajola Pescarini, coordinati dal sostituto procuratore Claudia Terracina. I numeri sono da capogiro: sequestrati dieci tonnellate di pile esauste provenienti da varie parte del mondo, altre 20 di scarti e 120 chili di polvere d'argento. Il business era notevole: sul mercato un chilo di argento veniva pagato 300 euro, e un chilo era la quantità minima settimanale che si riusciva a estrarre dalle vecchie pile. I cinque avevano compiti precisi: uno era il titolare della societa, la Re.Me, due viaggiavano all'estero (Ungheria, Romania, Gran Bretagna, Olanda) alla ricerca di rifiuti da trattare, un altro faceva lo stesso in Italia, battendo oreficerie e rivendite di orologi quasi porta a porta alle quali presentava una falsa documentazione sulla regolarità dell'impresa, e l'ultimo se ne stava in un capannone di Vetralla, nel Viterbese, a seguire la lavorazione del prezioso rifiuto. Solitamente lo scarto viene ritirato da intermediari, soggetti che raccolgono le pile esauste dalle attività commerciali e dai laboratori, e poi lo portano nelle poche ditte che in Italia sono autorizzate per trattamento e smaltimento delle pile esauste (come la Chimet di Arezzo e la Elettrochimet di Pescara). Secondo quanto è emerso dalle indagini, in alcuni casi i sodali della Re.Me avrebbero anche usato le maniere forti per farsi spazio nel mercato: uno degli intermediari ha subito l'incendio della sua auto. L'ultima fase era la cessione della polvere d'argento. Gli investigatori stanno proseguendo l'indagine per accertare chi fosse il "ricettatore". L'attività anomala della Re.Me non era nuova agli orefici romani. «Con una circolare dell'aprile '99 - spiega il presidente Paolo Paolillo - abbiamo cancellato la convenzione con la Re.Me perché non ci mostrò le necessarie autorizzazioni».