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Dario Franceschini: ai bambini il cognome delle madri. La mossa per salvare il Pd "machista"

Aldo Rosati
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Come un personaggio uscito dalla penna di Alberto Moravia, Dario soffre la noia. Da quando ha lasciato il Collegio Romano, le giornate gli sembrano infinite, lontano dalle stanze del potere, dalle nomine, dalle trappole, i sortilegi che l’hanno accompagnato e stregato per tutta la vita. Quando tutto il mondo della cultura dipendeva dalle sue scelte. Il tran tran del Senato? Un timido palliativo, un Cynar contro il logorio della vita moderna, inefficace. Poi sempre le stesse facce, gli stessi riti: due chiacchiere con il "bischero" Matteo Renzi, un conciliabolo col "levantino" Francesco Boccia, un ginseng con Pierferdinando Casini, a rinverdire i fasti del passato. Insomma che barba, che noia. Così, per spezzare la monotonia, Dario Franceschini ha lanciato la sua rivoluzione: «Diamo ai figli solo il cognome materno».

 

Un sasso nello stagno, un diversivo per rompere il circolo vizioso dell’abitudine. Lo stesso impulso che l’ha portato a rilevare un’officina a Colle Oppio. Per stupire i colleghi, che ora lo guardano con l’ammirazione riservata agli estrosi numeri uno: che uomo stravagante e inquieto, proprio uno scrittore prestato alla politica. Tra brugole e chiavi inglesi (e la moto che cavalcava da ragazzo), l’ex ministro si dedica a un altro passatempo: il giro di ricognizione nel Pd, lui che l’ha montato e smontato tutto più di una volta. Alla fine, manco a dirlo, dopo averla incoronata con il suo ultimo tocco magico, si è stancato pure di Elly, che lo considera il giusto. A Colle Oppio riceve Paolo Gentiloni, il più malmostoso di tutti, che vorrebbe evadere dal Nazareno. Lui ascolta, annuisce, poi torna al lavoro: aggiustare, sostituire, lubrificare. È cambiato tutto, bisogna prenderne atto, riflette il neo meccanico. Gli Esteri li decide Giuseppe Conte, l’economia non interessa alla "ragazza".

 

Restano i diritti civili e il proto-femminismo, un terreno che può essere di esclusiva pertinenza per la sinistra. Nasce così l’idea del cognome unico materno. Se Giorgia Meloni, con la sua maggioranza, si prende tutta la politica, «noi dem occupiamoci d’altro». Un po’ come gli indiani metropolitani negli anni ’70: «Fantasia al potere». Una rivoluzione, per uno che all’epoca probabilmente organizzava congiure tra i chierichetti. La provocazione, però, non decolla, da amici ed avversari solo lazzi e freddure. Carlo Calenda gli chiede se non ci siano altre priorità, Galeazzo Bignami (FdI) ironizza: «Quindi gli diamo il cognome del nonno?». Più entusiasta la senatrice dem Valeria Valente: «Un uomo che propone un’innovazione del genere? Un atto di coraggio, un riconoscimento della storia!». A questo punto, per convincere tutti, a Dario resta solo l’ultima carta da giocare: «Mater semper certa est». 

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