
Calendario anti-Meloni, i compagni si preparano: tutte le date in cui grideranno al fascismo

Mia nonna era nata a Predappio ed era la maestra del paese. Amica di donna Rachele e ardente fascista, rimase vedova molto giovane in quanto il marito, dopo essere stato percosso a sangue da una squadra di partigiani scesi dal Poggio di Montironi, morì per un’infezione. Per lei la parola «partigiano» funzionava come un riflesso pavloviano, partiva con una sequela di insulti in dialetto romagnolo. Quando cominciai la scuola mia madre, prudente, si raccomandò - non dire a nessuno della nonna, neppure che canta sempre «giovinezza», e non la canticchiare neppure tu! -, come fosse un segreto di famiglia inconfessabile.
Quando studiavo la glorificata storia dei partigiani che avevano sconfitto il fascismo regalandoci la democrazia non riuscivo proprio a capire come mai mia nonna ce l’avesse tanto con loro. Poi ho capito, erano gli anni ‘70 e il predominio della retorica antifascista ideologicae asimmetrica poteva avere una giustificazione. Era un antifascismo che portava nel suo dna un ineluttabile virus fascista, ma supponevo che il tempo avrebbe permesso una seria e corretta ricostruzione storica. E invece, dopo 50 anni, la ormai corrosa retorica del fascismo degli antifascisti è rimasta immutata, un grande classico da rispolverare in ogni buona occasione, come un tubino nero appeso all’armadio e adatto a ogni occasione. Poco impegnativo, sempre opportuno e opportunistico, magari fuori tempo ma un grande classico da rispolverare a piacere.
Mai come oggi, di fronte a un governo di destra liberale eletto democraticamente e che nonostante le iatture predette non ha ancora rispolverato i manganelli per sopprimere le libertà individuali, è tornata prepotentemente di tendenza la «fascisteria», e non per l’assonanza con la gintoneria. Gli antifascisti di mestiere, anche se ormai preconizzare un «ritorno al fascismo» non ha alcun fondamento politico in quanto un fenomeno storico non si ripete mai nello stesso modo, si sono segnati sul calendario appeso in cucina le date: 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno, 7 ottobre (perché «quelli» se la son cercata)10 febbraio (le foibe, vabbè che esagerazione) 25 luglio, 23 marzo (fosse aredatine), 2 agosto (strage alla stazione di Bologna), 28 ottobre (marcia su Roma) 4 agosto (Italicus), 7 gennaio (acca larentia 2 assassinati, ma eran fascisti), insomma uno scadenzario tassativo per poter esibire il passepartout del vigile custode della democrazia, sentinella a difesa del crescente clima di intimidazione degli intellettuali critici, dei vari progetti anticostituzionali, del nuovo razzismo contro gli immigrati, della grave repressione contro il dissenso studentesco.
La capillare campagna di comunicazione è basica, nemico è chi si ostina a ragionare fuori dagli schemi precostituiti e tutti coloro che non aderiscono integralmente ai depauperati dogmi antifascisti. Ma c’è di peggio, perché non basta dichiarare che la nostra democrazia è tale se si fonda sul rispetto dell’altro, sul confronto, sulla libertà, non sulla violenza, la sopraffazione, l’intolleranza e l’odio per l’avversario politico. E neppure proclamare nel giorno della Liberazione che la fine del fascismo pose le basi per il ritorno alla democrazia e ribadire l’avversione a ogni qualsiasi regime totalitario.
Queste sono solo parole inutili e prive di significato nella grossolana retorica del mestierante dell’ottusità. Perché c’è solo una e unica parola d’ordine per entrare nel privè del club dei giusti: dichiararsi antifascista. Chi non lo fa scoperchia l’ovvietà: che sia para-cripto-neo-post, sempre fascista rimane.
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