
Ventotene, Tarchi: "La critica al Manifesto ha rotto mito e tabù dell'egemonia progressista"

«La critica al Manifesto di Ventotene ha rotto uno dei tabù (e dei miti) su cui è stata costruita, e tuttora si sorregge, l’egemonia culturale – e il potere di intimidazione psicologica che ne consegue – progressista in Italia». Marco Tarchi, professore ordinario presso la facoltà Cesare Alfieri di Firenze, commenta così le recenti, sguaiate uscite della rive gauche della politica italiana.
È corretto affermare che il Manifesto di Ventotene è intriso di una visione socialista della realtà?
«Il termine socialismo copre una tale varietà di declinazioni che è impossibile dare una risposta secca a questa domanda. Direi piuttosto che era intriso di una cultura radical-azionista, molto diversa, ad esempio, da quella comunista, tant’è vero che ai dirigenti del Pci non piacque granché».
Giorgia Meloni è stata attaccata in modo frontale dalla sinistra per aver letto alcuni passaggi in aula. Cosa sottintendono queste dure prese di posizione dell'opposizione?
«Agitando un certo numero di testi sacri come fossero Tavole della Legge, ed imponendone la pubblica celebrazione, la sinistra condanna a priori, scandalizzandone, qualsiasi infrazione ai dogmi del politicamente corretto. Che lo faccia in parlamento o sugli schermi di Rai Uno con Benigni, cambia poco. L’importante è tenere salde le redini di questa pretesa di superiorità morale, senza consentire confronti o contraddizioni».
Il tema del riarmo europeo ha portato frizioni sia a destra che a sinistra. È una fase, certe differenze continueranno o potrebbero persino accentuarsi?
«Continueranno, e forse si accentueranno, a mano a mano che si ridefiniranno, dopo la fine – che prima o poi avverrà – del conflitto russo-ucraino, i contorni dell’ordine (o del disordine) internazionale. L’avvento di Trump alla guida degli Stati Uniti sta dando un significato e contenuti diversi all’atlantismo, che almeno negli ultimi trentacinque anni è stato vissuto passivamente, come una sorta di credo, un po’ da tutti gli attori politici inclusi nei sistemi occidentali. E nel contempo ogni tentazione neutralista è stata demonizzata. Ora vanno pensati, e accettati, nuovi assetti, e le reazioni sono in ordine sparso, al limite di una Babele delle lingue».
Guerra in Ucraina, sono partite le trattive di pace tra Trump, Zelensky e Putin. Perché l'Europa è stata tagliata fuori?
«Perché da sempre è, come si è tante volte scritto, un gigante economico ma un nano politico, le cui classi dirigenti non hanno mai neppure pensato a costruirsi una dimensione operativa autonoma, limitandosi a scodinzolare di fronte agli ordini del Grande Fratello d’oltreoceano, in cui vedevano il Gendarme Planetario che li avrebbe protetti sempre e comunque. Il modo in cui Trump sta trattando l’Unione Europea mette in evidenza che, trincerandosi dietro la subalternità, per decenni a Bruxelles non si è mosso nessun passo verso orizzonti di protagonismo».
La vittoria di Donald Trump è un unicum o rappresenta l'inizio di una nuova fase politica mondiale?
«Difficile dirlo, perché gli Usa non sono l’unico protagonista della fase presente di sviluppo delle relazioni internazionali e ancor meno lo saranno in futuro. Di sicuro la Cina non resterà a guardare le iniziative e le sfuriate dell’attuale inquilino della Casa Bianca, e non lo faranno neppure tutti quei paesi – a partire a quelli che si sono raccolti nei Brics – che guardano con sempre minore riverenza verso l’Occidente e puntano ad emanciparsene politicamente, economicamente e culturalmente. La disoccidentallizazione del mondo è probabilmente destinata a segnare il prossimo futuro».
Perché, ancora oggi, si fa fatica a parlare di Foibe?
«Perché, in un clima di sempre più acceso bipolarismo, sono diventate un corpo contundente da usare per colpire reciprocamente l’avversario. L’uso politico della storia, purtroppo, è ormai imperversante».
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