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Manovra all'ultimo minuto. La sinistra protesta, ma era così anche con loro

Aldo Torchiaro
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Dopo la pausa natalizia riprendono oggi i lavori della legge di Bilancio, che passa all’esame del Senato per la seconda lettura. La manovra da circa 30 miliardi di euro, la terza del governo Meloni, oggi sarà licenziata dalla Commissione Bilancio di Palazzo Madama che tornerà a riunirsi alle 11, mentre l’approdo in Aula è previsto per le ore 14. Al suo arrivo verso l’approvazione finale, torna puntuale la stessa liturgia. Tra chi accelera e chi media, chi preme e chi spintona, i parlamentari dell’opposizione si stracciano le vesti accusando la maggioranza di «blindare il testo della manovra, esautorando il Parlamento». La manovra, per la verità, arriva nei tempi consentiti dalla sempre più ingolfata Commissione Bilancio e come il panettone, lievita con il passare dei giorni. Il Mef inserisce emendamenti fino all’ultim’ora. Le forze della maggioranza portano avanti i loro. Le opposizioni chiedono spazi per mance e prebende: sono già 800 gli emendamenti che si pretendono di esaminare, contribuendo a rallentare l’approvazione della legge di Bilancio alle sue battute finali. La Manovra su cui i tecnici erano già pronti a fine ottobre, arriva al fotofinish di dicembre con il fiato corto.

 

 

Pd e 5 Stelle, maestrine dell’opposizione, rimbrottano il governo: «Tempi lenti. Così all’ultimo giorno non ci sarà modo di valutarla», dicono in coro. Eppure è sempre andata così. Basta sfogliare i giornali degli anni scorsi, tornare alle legislature di cui si facevano garanti i censori di oggi. Un esempio? Mario Draghi, che pure in tema di conti pubblici sapeva dove mettere le mani, era arrivato all’ultimo giorno utile. «Rush di fine anno per la manovra da 32 miliardi, la prima targata Mario Draghi», scrivevamo nel 2021. La relatrice allora era Daniela Torto, dei Cinque Stelle. I suoi inviti alla calma e alla pazienza provenivano dagli stessi banchi dai quali oggi, a parti invertite, si incita a fare presto e si denunciano ritardi. Il calendario draghiano era da lunga marcia: «Il voto finale è atteso per giovedì 30 in modo da garantire i tempi minimi per la firma e la pubblicazione della legge di bilancio», dettavano le cronache parlamentari di tre anni fa. «Ma non è esclusa la prosecuzione notturna della seduta e una convocazione venerdì 31, qualora i tempi dovessero allungarsi, mentre appare scontata la richiesta di fiducia da parte del governo».

 

 

Né Giuseppe Conte dovrebbe rimarcare troppo l’argomento dell’agenda dei lavori. La sua prima manovra, quella 2019, andò in votazione all’ultimo minuto: venne approvata il 30 dicembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale di gran corsa entro il 31 dicembre per esplicare i suoi effetti poche ore dopo, dal 1° gennaio 2019. Sembrò un miracolo di Natale quello fatto dall’allora premier Matteo Renzi, nel 2015, quando fece approvare la sua manovra da 35 miliardi addirittura il 22 dicembre, nove giorni prima della fine dell’anno. Naturalmente, a colpi di fiducia. Insomma quando governavano Pd, M5S e tecnici vari, correre al fotofinish delle ultime ore dell’anno era pacifico. Oggi con la manovra di Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti, si grida allo scandalo. Gratuitamente: visti i tempi contingentati, è possibile che l’ok al testo arrivi senza mandato al relatore e che il governo ponga la questione di fiducia, con il voto finale che dovrebbe arrivare intorno alle 14 di sabato 28 dicembre. Segnando un piccolo record rispetto alle manovre di Draghi, Conte e Gentiloni.

 

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