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Landini sogna il Palazzo e Rep serve come alleato. Quei silenzi sull'ex Fiat

Riccardo Mazzoni
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Dopo un lungo e assordante silenzio, Landini ieri s’è improvvisamente svegliato invocando un tavolo urgente tra governo e sindacati sulla crisi Stellantis. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, ma probabilmente ha ragione Calenda quando sostiene che il segretario della Cgil attaccava tutti i giorni Marchionne, ma da quando Elkann ha comprato Repubblica e Stampa dalla sua bocca non esce nemmeno una parola «perché Landini fa politica e ha bisogno dell’appoggio del gruppo Gedi». Del resto, è stato lo stesso Landini a sostenere in più occasioni che il sindaco ha il dovere di fare politica, e di conseguenza diventa quasi obbligatorio puntare al conflitto permanente col governo di centrodestra perseguendo una mobilitazione continua a colpi di sciopero generale. Ma così è completamente saltato il corretto rapporto tra politica e sindacato, ed è sempre più difficile contemperare crescita e solidarietà sociale se Cgil e Uil si arroccano sulle barricate massimaliste. La Cgil, in particolare, è stata l’avamposto sindacale del Pci nella Prima Repubblica ed è rimasta la cinghia di trasmissione della sinistra negli anni del bipolarismo, quando ha puntualmente agito da sindacato responsabile quando al governo c’erano Ulivo, Unione e Pd comportandosi invece da braccio politico dell’opposizione con Berlusconi e Meloni a Palazzo Chigi.

 

 

 

Ebbene, Landini è riuscito ad estremizzare questa postura ideologica, non fa sconti al governo lanciandogli accuse pesantissime sul mancato contrasto all’evasione fiscale e presentando una serie di richieste impossibili su automotive, sanità e scuola, usando il conflitto sociale come arma politica impropria, e per far questo ha bisogno del sostegno dei quotidiani d’area. Per cui di fronte al caso Stellantis, che sta mettendo a rischio il futuro di un settore cruciale per l’industria italiana, il leader del sindacato rosso palesa un mutismo selettivo inconcepibile per un leader sindacale. Solo che Landini fa anche (o soprattutto) politica, e dal suo vocabolario sono spariti da tempo sia Stellantis che John Elkann, l’erede della famiglia Agnelli che, con quel che resta della Fiat, è anche editore di Repubblica. Eppure di argomenti «sindacali» per scongiurare lo smantellamento dell’ex Fiat in Italia e la conseguente perdita di altre migliaia di posti di lavoro ce ne sarebbero a bizzeffe: gli anni della Prima Repubblica furono caratterizzati dall’interdipendenza tra politica, gruppi industriali, banche e grande stampa che portarono a sprechi, rendite monopolistiche e assistenzialismo di Stato all’insegna dello slogan «privatizzare gli utili, socializzare le perdite» che fu più volte accostato proprio alla Fiat.

 

 

 

Ora i suoi eredi hanno promesso cose che non hanno mai realizzato e hanno scelto di produrre i nuovi modelli dei marchi italiani all’estero, mentre Elkann ha rifiutato di riferire in Parlamento. È chiaro che quella di Stellantis, culminata con le dimissioni milionarie di Tavares, è stata una strategia disastrosa, puntando su macchine costose e solo sull’elettrico e chiedendo sempre nuovi incentivi (a proposito, il governo Conte concesse 6,3 miliardi all’ex Fca...). Marchionne, che per Landini era il «padrone» da combattere, riportò le produzioni in Italia senza chiedere un euro, mentre ora che i vertici di Stellantis per abbassare i costi hanno trasferito i marchi italiani nelle fabbriche low cost in Polonia, Serbia e Marocco, la Cgil non ha mai fatto la voce grossa, limitandosi a sostenere che Stellantis non ha creduto abbastanza nell’elettrico, mentre il problema è opposto. Qualcuno, con perfidia, ha detto che «Landini omette di parlare di corda in casa dell’impiccato», impersonando un bizzarro conflitto di interessi tra leader sindacale e capo politico.

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