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Albania, “indietro tutta!” sugli hotspot. Piano B di Meloni sui centri per i migranti

Luigi Bisignani
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Sull’Albania: «Indietro tutta!» ma senza l’orchestra di Renzo Arbore. Stretta tra la magistratura ordinaria e quella contabile, Giorgia Meloni sta esplorando nuove strade, anche quella di trasformare gli hotspot albanesi in carceri per ospitare i detenuti affiliati alla «mafja shqiptare», la mafia albanese, che in Italia sono circa 2800. Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, ha avvertito: «La mafia del futuro, non solo in Italia ma anche in Europa, sarà quella albanese». Alla Premier va riconosciuto che, in questi due anni di governo, ha dimostrato un’apprezzabile capacità di adattamento pragmatico agli scopi prefissati. Emblematico è stato il recente capolavoro di real politik nell’aver portato il suo ministro più fidato, Raffaele Fitto, a vicepresidente esecutivo della Ue contro tutto e tutti. Ma con l’immigrazione clandestina, tema identitario di FdI arriva un duro banco di prova. La posta in gioco è alta: al centro di tutto, il suo «Piano Mattei» per il contenimento degli sbarchi in Sicilia e di cui i presidi in Albania sono un tassello. L’intenzione era quella di trasferire i disperati provenienti dall’Africa, salvati in acque internazionali dalle navi della Marina e della Finanza direttamente a Shengjin e Gjadër, in attesa delle procedure burocratiche del loro destino. Oggi la visione è cambiata, infatti le recenti notizie riferiscono che quasi tutto il personale dei centri è stato richiamato in Italia. Ora resta da stabilire come questi luoghi possano essere impiegati in un rapporto costo/utilità che finora pende a favore del primo.

 

 

La cooperazione tra Roma e Tirana ha radici profonde, basti ricordare l’esodo biblico del 1991 - immortalato nel film di Gianni Amelio «L’America» - con i 20.000 migranti in fuga dall’Albania post-comunista stipati sulla nave Vlora che attraccò a Bari. Fu uno shock, all’epoca il governo Andreotti, senza troppi complimenti, li rimpatriò qualche giorno dopo, salvo poi concordare sostegno e assistenza con la missione «Pellicano». Negli anni successivi, si è andati avanti con missioni italiane come «Alba», nel 2017, e gli interventi post-terremoto nel 2019, in cui l’Italia fu la prima ad intervenire. Attualmente la collaborazione è ancora più stretta, coinvolge Forze Armate, dirigenti dell’intelligence e personalità albanesi. Tra queste spicca un uomo chiave per i rapporti bilaterali come Ilir Kulla, ex ministro per gli Affari Religiosi, consigliere di sicurezza internazionale di premier e presidenti e grande amico dell’Italia, dove si è laureato. Gli scambi tra le due nazioni risalgono addirittura al XV secolo, con la nascita delle comunità arbëreshë nell’Italia meridionale. Forti di questa cooperazione, i colloqui riservati in corso riguardano l’ipotesi di riqualificare i centri per migrati in prigioni, così da alleggerire il nostro sistema penitenziario, sempre più affollato e sempre meno gestibile. L’idea si basa su un efficace protocollo già in uso dai tempi degli esecutivi di Fatos Nano e Silvio Berlusconi, senza contare che l’Italia e l’Albania sono da anni impegnate in accordi ministeriali e nel reparto penitenziario, tanto che il nostro Paese già in passato finanziò due carceri in Albania.

 

 

Di fronte al sovraffollamento delle patrie galere, con percentuali che superano il 130% e con sempre più suicidi di detenuti, emergono sensate proposte di utilizzare il sito di Lezha, a nord del paese delle due aquile, per quei reclusi albanesi condannati in Italia. Il porto di Shengjin, invece, potrebbe ospitare migranti lungo la tratta balcanica, in collaborazione con l’Unione Europea. Questi interventi rappresenterebbero un «win-win» per entrambi i Paesi sulle sponde opposte dell’Adriatico. Le autorità albanesi vorrebbero sfruttare questa occasione anche per posizionarsi al centro dell’attenzione europea, probabilmente in vista del processo di adesione all’Ue. L’idea di trasferire migranti in Albania nasce dalle conversazioni tra Giorgia Meloni e l’allora primo ministro britannico Rishi Sunak, che le illustrò il progetto di «deportare» migranti in Ruanda. Tuttavia, mentre il Ruanda si trova a migliaia di chilometri da Londra, l’Albania è proprio di fronte all’Italia, rendendo il progetto apparentemente più attuabile. L’idea è stata poi perfezionata nell’estate 2023, durante la vacanza di Meloni in Albania nelle conversazioni con il premier Edi Rama, che ha messo a disposizione il suo territorio. In parallelo, l’Ue ha trovato un accordo sul nuovo Patto di Migrazione e Asilo, approvato dal Parlamento e dal Consiglio europeo lo scorso maggio, che prevede centri come quelli italiani in Albania, da applicare a partire dal 2026.

 

 

Nonostante le molte critiche, anche interne, in Europa i centri albanesi sono considerati un modello da studiare, tuttavia, il piano italiano sembra essere arrivato troppo presto per essere compreso. Tra gli errori fatti l’assenza di una solida struttura organizzativa - in grado di gestire dettagli importanti - e una task force giuridica che blindasse le decisioni, fermo che l’esiguità dei numeri dei migranti coinvolti non ha aiutato. L’accordo firmato l’anno scorso tra Roma e Tirana prevedeva infatti che l’Albania ospitasse fino a tremila migranti a fronte di una spesa di almeno 670 milioni di euro in cinque anni. La nave semivuota che trasportava meno di 20 migranti, i costi elevati, il sito prescelto a rischio di inondazioni, la battaglia giuridico-politica mal gestita hanno fatto sì che i media si scatenassero. Con una migliore gestione, coordinando più parti in causa e una pianificazione più incisiva, i centri avrebbero potuto essere pienamente operativi e dare una risposta concreta. Il governo ha servito la polemica su un piatto d’argento, sia alla magistratura che all’opposizione. Ora si può solo cercare di correggere il tiro, evitando che un progetto ambizioso e coraggioso, si trasformi in un Titanic politico.

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