Bisignani e la lezione di Gardini e Cuccia nell'Italia che non cambia
Caro direttore, Ferruzzi: l’ora della verità è arrivata. Io c’ero, e ho visto coni miei occhi l’arroganza con cui Mediobanca ha distrutto l’impero Ferruzzi, plasmando a sua convenienza il panorama industriale dell’epoca. Un’arroganza che persiste indisturbata, evidente ancora oggi, nella vicenda di Generali, crocevia di mille giochi di potere in Italia. Una verità della quale dopo trent’anni di patimenti non potrà godere Arturo Ferruzzi, il figlio maschio del fondatore Serafino, un galantuomo dal temperamento mite, sempre sorridente e con una parola buona per tutti scomparso improvvisamente ieri a 84 anni. Ferruzzi, una dinastia segnata da tragedie e lutti che finalmente Carlo Sama e sua moglie Alessandra, la sorella più piccola di Arturo, raccontano in prima persona con minuziosi dettagli - incontri, atti e appuntamenti- nel libro «La Caduta di un impero -1993 Montedison Ferruzzi Enimont», Rizzoli editore. Ad ogni singola pagina del libro viene da pensare: «Quello che è, non è quello che sembrava». Parafrasando una frase tratta da «La fiera della vanità» di William Makepeace Thackeray, un romanzo che ben si adatta a questa vicenda, dove la vanità regna sovrana. Vanità quella di Raul Gardini, dei pm di Mani Pulite, e di Mediobanca, guidata da un cinico Enrico Cuccia, che espropriò di fatto il Gruppo Ferruzzi, l’unica vera multinazionale italiana dell’epoca, presente ai massimi livelli in Europa in settori che andavano dallo zucchero, agli amidi, dalle proteine di soia ai mangimi, dal cemento al calcestruzzo per citarne solo alcuni.
Alessandra e Carlo hanno finalmente deciso di ristabilire quel piano di verità tradito dai media e dalla politica. Hanno saputo aspettare pazientemente mantenendo una silenziosa signorilità, una merce rara in un mondo in cui tutti urlano. Questo è un libro coraggioso, che si legge d’un fiato come un romanzo giallo, e ci svela un pezzo cruciale della storia d’Italia. Sama scrive: «In definitiva, sarebbe bastato anche soltanto un po’ dell’impegno profuso per Fiat (ndr, per come oggi è ridotta) per mettere in sicurezza il Gruppo Ferruzzi. Ma la realtà è che Mediobanca non intendeva "salvare" il Gruppo Ferruzzi, bensì sfilarlo ai legittimi proprietari per poi dilapidarlo». Alessandra Ferruzzi aggiunge un paragone sconcertante: «Noi siamo stati la Lehman Brothers di Mani Pulite. Nel 2008, in America, tutte le banche e assicurazioni erano praticamente in rovina, ma ne fecero fallire ufficialmente una sola, come nel nostro caso, e le altre furono salvate con il debito pubblico, a spese dei contribuenti. C’è però una differenza non trascurabile. In Italia, Mediobanca e Mani Pulite decisero di far fallire un’azienda industrialmente solida come la nostra, non per caso, ma per un motivo preciso. Infatti, gli altri maggiori gruppi industriali e finanziari italiani, allora pressoché agonizzanti, appartenevano alla loro intoccabile cerchia storica di amici e amici degli amici».
Più di dieci anni fa, nel libro «L’uomo che sussurra ai potenti» mi trovai a rispondere aduna domanda di Paolo Madron: «Arturo Ferruzzi e i suoi familiari furono costretti a firmare una resa incondizionata. Io ero tra i pochi a opporsi, spingendo per la soluzione Goldman, sapendo che Claudio Costamagna aveva già ricevuto il via libera dal sistema bancario internazionale, che considerava i Ferruzzi l’unica vera multinazionale italiana. Ma ormai il destino era segnato». Oggi Sama ribadisce con dolore questa verità, arricchendola con dettagli personali drammatici seppur a tratti esilaranti come l’avventura di Ca’ Dario a Venezia. Racconta anche il suo straordinario rapporto con Gardini che, nel delirio del proprio ego, pronunciò sfrontatamente la famosa frase: «la chimica sono io». Fu Gardini, con la sua genialità e il suo spirito da «pirata», a decretare la fine della dinastia Ferruzzi, con il desiderio di rimpiazzarla con i Gardini. Ambizioso, megalomane e spericolato, sfruttò il tesoro lasciato dal suocero Serafino, andando avanti fino alla rovina. Anche dopo la sua morte, nonostante grandi intuizioni, la sua figura è stata quasi beatificata. Con questo libro, Alessandra e Carlo rompono quel silenzio, lungo trent’anni, che si erano imposti, così da restituire alla storia d’Italia una verità che molti hanno cercato di seppellire e ai loro nipoti un’eredità fatta di dignità e orgoglio familiare. Mediobanca, come se nulla fosse, continua ad espandere la sua «longa manu» nella finanza, forte, per altro, di un presidente Renato Pagliaro, che dopo 14 anni, con Consob e Banca d’Italia silenti, dovrebbe aver perso il suo requisito di «indipendenza».
Nelle recenti vicende di Tim, la merchant milanese ha svolto più parti in commedia: da advisor per la cessione della rete a KKR, alla gestione di candidati cosiddetti «indipendenti» per il cda, spesso non sgraditi. In prima linea nel loro reclutamento, dandosi un gran daffare, dirigenti influenti come Emilio Franco, ceo di Mediobanca SGR, e Massimo Menchini, il direttore degli affari istituzionali da oltre 15 anni deus ex machina di Assogestioni con la passione per professionisti d’oltreoceano preferibilmente di sinistra. E così stanno facendo anche con Generali in vista del rinnovo del cda previsto per la prossima primavera, dove per fronteggiare la minoranza di Caltagirone e Del Vecchio il solito Menchini, l’uomo con il farfallino, sembra stia cercando candidati indipendenti che potrebbero piacere ad Alberto Nagel, l’ad che nel tempo ha ridotto Mediobanca a una piccola merchant meneghina a differenza delle rivali Rothschild e Lazard per citarne due il cui respiro internazionale impedisce di fare paragoni. Ma Giorgia Meloni e Alfredo Mantovano, il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio che l’8 novembre ha partecipato a Milano al convegno organizzato proprio da Mediobanca sul tema del Golden power (forse magari un ringraziamento per l’endorsement che lo scorso agosto Nagel ha fatto al governo), non hanno nulla da dire?