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Dossier, così Striano attaccava i magistrati: "Ma se ci beccano sono guai"

Rita Cavallaro

«È interna all'Espresso, se esce fuori è un casino visto l'attacco alla Procura e al riferimento agli organi investigativi.Mi raccomando passiamo i guai, mi fido di te come sempre». È il 28 gennaio 2019 quando Pasquale Striano, il capo degli spioni dell'Antimafia, contatta un suo collega della Guardia di Finanza,il luogotenente David Tundo, pugliese ma operativo a Modena. Il giorno prima sul settimanale L'Espresso il giornalista Giovanni Tizian, indagato in concorso con Striano per accesso abusivo alle banche dati e rivelazione del segreto, aveva firmato l'inchiesta «Emilia rotta», una storia di politica e affari in cui riportava una circolare interna del procuratore di Bologna dell'epoca, Giuseppe Amato, magistrato di Unicost, non certo una toga rossa, oggi procuratore generale di Roma, al vertice dell’ufficio che autorizza le intercettazioni preventive dell’Aisi. L'articolo riporta la lettera con la quale Amato invitava le Procure a dosare al meglio l'uso dell'aggravante mafiosa in modo da non ingolfare l'Antimafia semplicemente sulla base di sospetti. Una presa di posizione condivisibile, a ben guardare le troppe inchieste per mafia in cui la mafia non c'era.

 

  

 

Eppure quella lettera aveva fatto discutere tanti colleghi. E certamente aveva indignato Striano, il grande investigatore che ha trasformato l'Antimafia in un verminaio di intrusioni illecite su politici di centrodestra e vip che nulla avevano a che fare con le competenze della Superprocura. Tanto da scatenare perfino le ire del procuratore di Milano, Francesco Greco, che trovandosi sul quotidiano Domani una Sos illegale sui fondi della Lega aveva ingaggiato un braccio di ferro istituzionale con via Giulia, diretta da Federico Cafiero De Raho, per capire «a che titolo la Dna potesse condurre indagini su contesti non afferenti i compiti istituzionali», si legge nelle carte del procuratore di Perugia, Raffale Cantone, titolare dell'inchiesta dossieraggio. Gli atti, sulla base dei quali Cantone vuole arrestare Striano e l'ex pm Antonio Laudati, raccontano ora un modus operandi del finanziere che, attraverso la collaborazione con i giornalisti amici, tentava di fare pressione sull'attività di magistrati poco d'assalto, tutti appartenenti all'area moderata o centrista. «Vuoi l'articolo sul procuratore», chiede a Tundo il 28 gennaio 2019. «L'articolo di Tizian», risponde il collega a Striano: «Te lo mando ma è una versione che non puoi mandare in giro... altrimenti recupera l'Espresso di ieri, dimmi tu... È interna all'Espresso, se esce fuori e un casino visto l'attacco alla Procura e al riferimento agli organi investigativi. Mi raccomando passiamo i guai, mi fido di te come sempre», precisa inviando il file appannaggio esclusivo della redazione. «Hai ragione a combattere con tutti e tutto sono arrivato al punto di passare le indagini a giornalisti pur di far uscire tutto sui giornali», scrive Striano il 20 settembre 2020 a Cataldo D'Oria, tenente di Corato, in provincia di Bari, comandante della Sezione operazioni del Comando Regionale Puglia.

 

 

Il finanziere spione invia al suo interlocutore l'articolo «L'ombra dei clan sulle gare per le mascherine del Lazio» e riferisce a D'Oria che ha avuto fortuna. «Che me frega, vado avanti così, non abbiamo scelta io mi sento in un angolo... come del resto tu». Il finanziere, che più volte si è autodefinito un «grande investigatore», mal sopportava di essere imbrigliato dalle regole del diritto e ha usato il sistema analisti, secondo gli inquirenti, non solo per spiare su richiesta dei giornalisti gli avversari politici da colpire con inchieste sulla stampa, ma anche per esfiltrare centinaia di migliaia di documenti riservati, del tutto spariti e rispetto ai quali si è aperta ora una questione di sicurezza nazionale. Ma anche per attaccare quei magistrati che intralciavano il sistema di spioni. Nelle carte dell'inchiesta di Cantone è riportata la questione emblematica della cava di Agira, un'inchiesta firmata da Tizian su Domani riguardante la Fassa Bortolo, l'azienda leader nella produzione di materiali per l’edilizia che aveva ottenuto, secondo gli spioni in maniera non corretta, l'autorizzazione a estrarre calcare all’interno di un'area archeologica. Una storia che dipinge il finanziere nelle vesti di giornalista. Il 28 aprile 2021 Striano scrive a Giuseppe Puzzo, poliziotto ennese ed ex collega alla Dna, di comprare Domani perché «si parte dalla famosa informativa nostra su Agira».

 

 

Puzzo risponde che sarebbe necessario denunciare il pm, che Tizian con i suoi articoli «fa solo lo squalo», non prendendosi la briga di approfondire e che «dovrebbe stare a secco fino a quando non capisce che scrivere di mafia non significa copiare». La critica riguarda il fatto che il cronista non avrebbe investigato sull'immobilismo della Procura, esortando Striano a non farsi usare. «Mi pare che sono quelli dell'Antimafia a chiacchiere», dice Puzzo. «Sicuro ma non mi faccio usare, intanto un po' di casino fa bene». Il poliziotto consiglia al finanziere che «per sollecitare formalmente potresti vedere se hanno fatto qualche movimento bancario... Altrimenti Laudati o Russo dovrebbero fare un sollecito (non lo faranno mai)». Striano risponde parlando di guerra tra magistrati e lamentandosi dell'inerzia di alcuni di loro. Ed è qui che attacca Domenico Gozzo, l'ex sostituto procuratore di Palermo che ha indagato sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio, sbarcato alla Direzione nazionale antimafia grazie al sostegno dei togati di Autonomia&Indipendenza Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. «Stanno tutti in guerra e sto scemo di Gozzo che si paventa magistrato antimafia la tiene chiusa nel cassetto (l'inchiesta, ndr), questo per dire che poi facciamo bene se mandiamo tutti ai giornalisti...». E mentre il pm Gozzo procedeva con il massimo riserbo sul fascicolo siciliano, Striano, per due mesi, aveva «lavorato» con un contatto in modo da reperire tutte le informazioni da passare a Tizian.