la lettera

Andreotti, il figlio scrive a Il Tempo: "Vi racconto il legame di papà col generale Dalla Chiesa"

Stefano Andreotti

Egregio Direttore, nel corso della trasmissione Rai Tango l’onorevole Rita Dalla Chiesa è tornata a parlare dell’omicidio del generale Carlo Alberto sostenendo che il padre fu ucciso per fare un favore ad un politico. Senza fare direttamente il nome di mio padre Giulio Andreotti perché, bontà sua, «c’è una famiglia e delle famiglie, ha molto rispetto», ha praticamente avallato l’affermazione della conduttrice che il nome di mio padre ha fatto. Con mia sorella Serena da tanti anni stiamo cercando di far conoscere chi realmente è stato nostro padre con le nostre testimonianze ma soprattutto con la diffusione della montagna di atti e documenti che ha lasciato nel suo archivio custodito dall’Istituto Luigi Sturzo e aperto per sua volontà al pubblico, dei suoi diari e di tanti altri scritti che conserviamo, nella speranza che finalmente la ricostruzione storica prenda il sopravvento su una cronaca di parte che ha inquinato la storia d’Italia a partire dagli anni novanta. Con il generale Dalla Chiesa mio padre ha sempre conservato un ottimo rapporto di stima e considerazione seguendolo e incoraggiandolo nelle straordinarie capacità dimostrate in particolare nella lotta al terrorismo nella quale fu assoluto protagonista.

 

  

 

Cito ad esempio le circostanze di quando nell’agosto del 1979 mio padre lasciò Palazzo Chigi raccomandando al subentrante Cossiga di non smantellare il nucleo presieduto dal Generale malgrado le aspirazioni dello stesso ad essere assegnato ad altro incarico. Con lettera del 9 settembre espresse tutta la riconoscenza per aver il Generale accettato e ricevette in risposta la lettera del 16 settembre nella quale il Generale dimostra realmente quale fosse il giudizio da lui dato su nostro padre e i rapporti che realmente li legavano. Negli anni anni successivi, pur non ricoprendo mio padre incarichi di governo, spesso il Generale passando da Roma chiedeva un incontro, come testimoniato dai collaboratori da lui richiesto e mai avvenuto su convocazione di mio padre. Di alcuni argomenti trattati in quelle occasioni mio padre preferì proprio per rispetto del generale non fare mai menzione, ma oltre ad averne parlato in privato con noi e ai suoi stretti collaboratori, cito ad esempio la testimonianza di Luigi Bisignani: «Quanto al generale, ricordo perfettamente più visite a Piazza San Lorenzo in Lucina. Arrivava quasi sempre con brevissimo preavviso, ma una volta notai che, trattenendosi più del solito, uscì con un tono insolitamente dimesso, al contrario della signora Enea che, invece, lo salutava come sempre con bonaria ironia. Chiesi al presidente cosa fosse successo e raccolsi la confidenza che oggi, davanti a tante cattiverie, mi sento di rivelare. "Quest’uomo così valoroso mi ha voluto parlare da padre a padre del rapporto con suo figlio Nando del quale non riesce a capire alcune scelte che lo angosciano. Questo gli provoca molto dolore, tanto da commuoversi davanti a me ed io ho cercato di rincuorarlo"».

 

 

Della tragedia della barbara uccisione del generale e della moglie Emanuela Setti Carraro, con la quale mio padre aveva ugualmente un ottimo rapporto, mio padre fu particolarmente addolorato, inviò un caldo telegramma di condoglianze alla famiglia, non si recò al funerale perché impossibilitato e per di più non ricoprendo in quel periodo cariche ufficiali. Dei rapporti fra mio padre e il generale esistono altre numerose testimonianze, cito fra le tante un articolo da lui scritto proprio su Il Tempo del 7 ottobre 1984 e una pagina del diario del 17 settembre 1986 riguardo una visita formale del giudice Falcone. Vennero poi gli anni dei processi, che lo hanno rattristato per tredici anni, con le accuse di alcuni pentiti anche su compromissioni sull’omicidio del generale. Purtroppo spesso anche delle risultanze processuali viene da alcuni data una lettura di parte, ripresa anche di recente da alcune pellicole cinematografiche piene di inesattezze che avrebbero la pretesa di scrivere la storia d’Italia, figlia del magrissimo risultato ottenuto rispetto alla montagna di accuse che gli erano state riversate addosso. Comunque nelle sentenze non c’è evidenza alcuna di responsabilità in merito all’omicidio del generale. Forse se tutti quelli che parlano non di rado senza realmente informarsi avessero voglia di leggere le tante carte a disposizione, comprese quelle processuali, si otterrebbe anche da parte loro una ricostruzione«"storica» di quel anni e fra loro anche la famiglia, della quale naturalmente comprendo umanamente l’immenso dolore. Per quel che può valere, e per me vale molto, riporto il giuramento che mio padre ha lasciato a noi figli in una delle lettere postume che ci ha lasciato: «Desidero ripetere con la serietà di un giuramento davanti a Dio, al quale nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pecorelli, del gen. Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli assassinati».