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Claudio Mancini: chi è il deputato Pd che sussurra a Gualtieri e guarda a Italia Viva

Martina Zanchi
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Affibbiare l’etichetta di «sindaco ombra» a Claudio Mancini, deputato e ras del Pd capitolino, potrebbe essere ingeneroso nei confronti di Roberto Gualtieri, ma certamente è sua la voce più ascoltata a Palazzo Senatorio. Malelingue dicono che ieri la seduta dell’Assemblea capitolina sia stata fissata alle 14 per non disturbare il congresso di Ali, che ha «incoronato» Gualtieri presidente tra scrosci di applausi. Ma senza scomodare chiacchiere da buvette, per comprenderne l’influenza basta osservare il capannello di consiglieri che si forma attorno a Mancini, quando (raramente) si presenta in Aula. Classe 1969, di Monteverde, già tesoriere romano del Pd, Mancini è amico di lunga data di Gualtieri con il quale ha condiviso la militanza politica, e tre anni fa si è occupato personalmente di spianare la strada dell’ex ministro dell’Economia verso Palazzo Senatorio. Vinta la sfida contro Enrico Michetti, tra Gualtieri sindaco e Mancini il rapporto è rimasto strettissimo. Un consigliere politico ma anche un po’ di più: una sorta di assicurazione sulla tenuta d’Aula.

 

 

Non bisogna dimenticare infatti che l’ultimo sindaco del Pd nella Capitale è stato quell’Ignazio Marino defenestrato dai suoi con un blitz dal notaio. Ma Mancini non ha sempre vinto. Tra le sconfitte brucianti si ricorda quella per la segreteria regionale contro Bruno Astorre, franceschiniano. Non a caso è proprio nella Capitale che Mancini ha costruito il suo potentato, arrivando a intessere rapporti, costruire candidature e sperimentare alleanze indipendenti e molto spesso in antitesi rispetto ai livelli superiori del partito. Oggi in Campidoglio il suo è un ruolo fondamentale. È lui il punto di riferimento politico dei consiglieri che lo seguono, del sindaco e di buona parte della giunta, da quando l’ex capo di gabinetto di Gualtieri, Albino Ruberti, ha dato le dimissioni sull’onda di uno scandalo mediatico causato dalla diffusione di un video che lo ritraeva, dopo una cena a Frosinone, lanciare improperi contro Vladimiro De Angelis, fratello di Francesco, già deputato europeo e personaggio di primo piano del Pd del frusinate. Quell’«inginocchiati o ti sparo» - peraltro ridimensionato da tutti i protagonisti della vicenda con una banale lite per motivi calcistici - è costato a Ruberti la poltrona più importante di Palazzo Senatorio, dopo quella del sindaco, e al contempo ha segnato l’ascesa di Mancini.

 

 

Ma tenere insieme 18 consiglieri non è facile, anche se se ne possono controllare la metà, e prima dell’estate la caduta del numero legale in Assemblea capitolina è stata così frequente da diventare preoccupante. Così, dopo le timide aperture al Movimento 5 Stelle, dove però a fronte di due grillini possibilisti (Linda Meleo e Paolo Ferrara) c’è la netta opposizione di Virginia Raggi e Daniele Diaco, ora la direttiva manciniana è cambiata. A Roma la rotta è puntata su Italia Viva, e lo dimostra una certa convergenza su mozioni e delibere. È al partito dell’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, l’orizzonte a cui guarda il Campidoglio? «Cominciare da Renzi è un evidente errore politico». La sentenza, che peraltro si riferisce alle alleanze nazionali, è di peso. A pronunciarla su queste pagine è stato ieri Goffredo Bettini, 72 anni, il guru dem consigliere privilegiato di Nicola Zingaretti e artefice delle vittorie di Francesco Rutelli, Walter Veltroni e Ignazio Marino. Figura centrale per la nascita del Partito democratico, già europarlamentare, assessore a Roma, consigliere regionale, deputato e anche senatore, oggi è fuori dai ruoli e dalle istituzioni ma non manca di far sentire la sua voce ogni qualvolta ritiene che qualcosa non va per il verso giusto. Lo ha fatto ad esempio quando Massimiliano Smeriglio (altro pupillo per cui sogna un posto in giunta a Roma) ha deciso di lasciare la delegazione del Pd a Bruxelles poco prima delle ultime Europee. Bettini stima Giuseppe Conte ed è tra i promotori dell’asse con il M5s oltre che dello spostamento a sinistra, pur ritenendo indispensabile «un soggetto liberaldemocratico» nella coalizione. Ma «servono nomi nuovi» e Renzi, come detto, «è un errore politico».

 

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