“O cambia o è la fine”

Draghi l’euroscettico: critica l'Ue e lancia un piano da 800 miliardi

Pietro De Leo

Già parlavano chiaro le anticipazioni uscite negli scorsi giorni dalle esposizioni preliminari del suo piano sulla competitività che Mario Draghi aveva svolto presso il Coreper e i leader dei gruppi all’Europarlamento. Ieri, quando il documento è stato reso pubblico con la presidente della commissione Ursula von der Leyen, è emerso l’elemento chiave di un bivio di esistenza politica che l’Ue ha davanti a sè: o si avvia un serio progetto decidente sui dossier principali, con investimenti e scelte in tempi rapidi, oppure per l’architettura comunitaria sarà la fine. E quella «lenta agonia» che l’ex presidente del consiglio italiano tratteggia come incubo, con tutte le priorità individuate, segna un invocazione di discontinuità con quanto fatto sinora. Non solo, è indicata anche la ricetta: «Ogni anno serve investire 800 miliardi, oltre il doppio del piano Marshall tra il 1948 e il 1951». È interessante capire come molte argomentazioni di Draghi si ritrovino nelle istanze spesso promosse anche dai leader del centrodestra italiano, per quanto si collochino in maniera differente non soltanto nel quadro europeo, ma anche riguardo al confronto sulle scelte e l’impegno dell’ex premier. Così, quando Draghi lancia il suo appello ad agire, abbandonando «l’illusione che solo la procrastinazione possa salvare il consenso», e pone l’accento rispetto al problema del calo demografico si ritrova una certa analogia con le posizioni più volte espresse in merito dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni. Sulla centralità attribuita al tema nascite dalla premier (anche in quanto leader di Fratelli d’Italia e della famiglia europea dei conservatori) v’è ampia letteratura. Ma sul quadro generale, può essere utile andare a rileggere cosa disse durante la campagna elettorale per le scorse europee: «Penso che l’Europa debba cambiare nelle proprie priorità». Così come, a margine dell’ultimo consiglio Ue della scorsa legislatura, aveva auspicato un «approccio più pragmatico verso i problemi dei cittadini». E non è proprio il pragmatismo quello invocato da Draghi?

 

  

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Scendendo poi più nel dettaglio dei temi affrontati dall’ex numero uno della Bce, c’è un altro passaggio interessante, quello relativo ai meccanismi decisionali, che spesso bloccano l’adozione delle scelte. «Finora, molti sforzi per approfondire l'integrazione europea tra gli Stati membri sono stati ostacolati dal voto all'unanimità. Dovrebbero quindi essere sfruttate tutte le possibilità offerte dai Trattati Ue per estendere il voto a maggioranza qualificata», ha detto. Un argomento molto simile fu espresso, sempre in campagna elettorale, dal ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia Antonio Tajani, esponente di primo piano del Ppe, parlando alla trasmissione di La7 Coffee Break. «Vogliamo superare il voto all’unanimità, perché altrimenti il voto si blocca e ci blocchiamo anche noi». Così come la centralità all’argomento difesa: «L’Europa deve reagire a un mondo dalla geopolitica meno stabile, dove le dipendenze stanno diventando vulnerabilità. Non può più fare affidamento sugli altri per la sua sicurezza», dice Draghi. «Noi pensiamo alla armonizzazione dell’industria della difesa e dei programmi comuni e ad una maggiore cooperazione delle forze armate, verso un percorso di integrazione con un incremento delle missioni sotto l’egida europea», affermò Tajani tempo fa in un’intervista a QN.

 

 

Sul piano delle politiche energetiche, poi, Draghi ha sottolineato la necessità di «Mantenere l’approvvigionamento nucleare e accelerare lo sviluppo del nucleare di nuova generazione». E quante volte il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, meno politicamente affine all’economista, ha battuto sul punto? Ecco, l’ultima, da Cernobbio: «Ritengo che l’Italia non possa più dire di no al nucleare, ritengo una delle mission più importanti di questo governo sia quella di riportare l’Italia nel contesto della modernità e dell’efficienza». Ieri, il quadro politico ha espresso un trasversale consenso rispetto ai contenuti del rapporto, tra cui si denota una certa intensità del Pd. Il rapporto «indica la via corretta per il futuro dell’Europa», dice il capodelegazione dem a Strasburgo Nicola Zingaretti. Il collega Dario Nardella osserva: «Il Report di Draghi è una bella scossa all’Europa». Tutto legittimo, per carità. Peccato che molte delle argomentazioni dell’ex premier italiano (specie quando sottolinea la gradualità della transizione ecologica) costituiscono una bocciatura di quella che è stata l’essenza della politica fin qui espressa dai socialisti in campo europeo.