rischi enormi

Pd, ora Schlein teme il correntone. Il referendum sul Jobs Act non piace agli ex renziani

Edoardo Romagnoli

Quel percorso di avvicinamento fra Elly Schlein e Matteo Renzi iniziato a luglio con quell’abbraccio alla partita del Cuore sembra ormai arrivato a destinazione. Il Pd ha bisogno di un centro, non per forza occupato solo da Renzi, Matteo dal canto suo ha capito che al centro c’era tanto spazio ma pochi voti. E così è tornato lì dove tutto era partito. Ora però si apre un dilemma non da poco, come accade spesso in politica quando si fanno le ammucchiate: che posizione terrà Schlein sul referendum della Cgil contro il Jobs Act? Dal Nazareno sono convinti che la questione non imbarazzerà la segretaria perché sul tema ha lasciato libertà di coscienza. Tant’è che una parte del Pd non ha partecipato alla raccolta firme e non voterà il referendum. Ma andiamo con ordine. Il 7 maggio scorso la segretaria dem annunciava su La Repubblica che avrebbe firmato il referendum di Landini. Nulla di scandaloso visto che l’aveva messo anche nel programma con cui si era presentata alle primarie un anno prima. Ma la battaglia di Schlein contro la riforma di renziana memoria parte da ancora più lontano. Il 25 ottobre 2014 aveva partecipato a una manifestazione della Cgil contro il Jobs Act. Quando militava nelle file di Possibile (il partito di Civati) aveva promosso la raccolta firme per otto referendum, di cui due proprio finalizzati a cancellare il Jobs Act. A fine luglio il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha scaricato 1.036 scatoloni in Corte di Cassazione con quattro milioni di firme raccolte per i quattro referendum in cui si afferma «la dignità dei lavoratori, la libertà di non essere precari, il diritto di non morire sul lavoro». Se la Corte di Cassazione darà il via libera i quesiti passeranno alla Corte Costituzionale che ne deciderà l’ammissibilità. Se l’iter dovesse concludersi positivamente il referendum si potrebbe tenere fra il 15 aprile e il 15 giugno 2025.

 

  

 

Nonostante dal Nazareno siano convinti che l’appuntamento referendario non creerà nessun imbarazzo ci sono due punti non trascurabili. Il primo: davvero un partito come il Pd pensa di diventare partito di governo lasciando su una serie di temi, tra l’altro piuttosto scottanti, libertà di coscienza? Il secondo: davvero pensano di poter «usare» Renzi senza colpo ferire? La strategia elettorale in Liguria spiega bene quale sarebbe l’idea in casa dem. Prendersi quell’1-2% che Renzi porterebbe in dote senza però dover mettere il logo di Italia Viva nel simbolo della coalizione. Ovviamente parallelamente Italia Viva dovrebbe uscire dalla giunta del sindaco di Genova Marco Bucci. Tutto molto bello, bisogna poi vedere quanto costerà in termini politici.

 

 

E infatti l’ala sinistra del Pd, Cuperlo in primis, non vede di buon occhio un eventuale rientro, anche periferico del Machiavelli di Rignano. Loro, a differenza di Schlein, sanno bene che Renzi non è uno che si accontenta di fare la comparsa. E ancora. Se nel Pd c’è già chi è favorevole a fare un’alleanza con l’ex premier e chi, contestualmente, è contro il referendum sul Jobs Act, come si fa a non tenere in considerazione la possibile creazione di un correntone? Renzi utilizzando proprio il referendum potrebbe portarsi a casa un 30% del partito senza troppi sforzi. Non è un caso che già quando Schlein annunciò la sua firma all’iniziativa della Cgil lui rispose con un appello a una parte dei dem: «La segretaria del Pd firma i referendum per abolire una legge voluta e votata dal Pd. Finalmente si fa chiarezza. Loro stanno dalla parte dei sussidi, noi dalla parte del lavoro. Amici riformisti: ma come fate a restare ancora nel Pd?». Ora bisogna solo vedere in quanti aderiranno a quell’appello di allora valido ancora oggi più che mai.