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Matteo Renzi, l'ala "blairiana" si infrange su muro rosso Fratoianni-Landini-Conte

Pietro De Leo
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Nell’infinito bazar delle suggestioni politiche c’è quest’ultima pagina: il leader di Italia Viva Matteo Renzi, nella sua grande smania di dare fondamento al repentino avvicinamento al Pd e compagnia ha scritto: «Voglio fare l’ala blairiana della coalizione di centrosinistra. Rispetto chi non la pensa come me, ma intanto dico la mia, forte e chiaro». A essere chiaro è chiaro. Renzi ha sempre cercato di costruire una sovrapponibilità della propria sembianza politica con quella dell’ex premier inglese, artefice di una svolta in senso liberale del Labour a metà degli anni ’90. A quella il Nostro si ispirò per veicolare la rottamazione negli anni, ormai dieci orsono, del suo boom. E oggi lo aiuta la recente nomina come consulente strategico proprio del Tony Blair Institute. Però, come argomentò il compianto Tommaso Labranca, il primo passo verso il trash è l’imitazione uscita male.

 

Se scendiamo dall’empireo delle suggestioni, e atterriamo sul duro terreno delle categorie politiche, ci accorgiamo quanto il «blairismo», quello autentico non la sua contraffazione politica, sarebbe ontologicamente incompatibile con un centrosinistra in cui operano i Bonelli, i Fratoianni, i Conte, per certi aspetti anche lo stesso groppone schleineiano del Pd (per quanto su quest’ultimo si nota una certa mutazione pragmatica degli ultimi mesi). Roger Abravanel, nel suo saggio Meritocrazia, fotografa il senso del cambiamento portato da Tony Blair al partito laburista. La concezione del leader inglese, scriveva Abravanel nel 2008, «rimpiazzava la lotta di classe con la lotta per le pari opportunità, riconoscendo chela strada del libero mercato e della capitalismo era ormai inevitabile». Fulcro di questo fu intervento sulla clausola IV dello Statuto del Labour Party, che sanciva la proprietà pubblica dei mezzi di produzione.

 

Un assunto ampiamente superato dalla storia, e che andava demolito in senso formale. Tony Blair, nella propria biografia (Un viaggio), descrive la complessità (e il travaglio anche umano) nel condurre il partito a compiere quella svolta storica, e ne focalizza il fondamento culturale: «Lo Stato e i provvedimenti sociali erano adesso gli strumenti per avvantaggiare l’individuo, non per faMaurizio Landini Segretario generale della Cgil gocitarlo, puntando ad aumentare le possibilità di tutti senza limitare quelle ambizioni». Proviamo a traslare questo principio in un’eventuale centrosinistra italiano di oggi, dove è una continua eruzione di richieste di tasse patrimoniali (Fratoianni), la requisizione delle case sfitte dei privati da parte dello Stato per darle in affitto calmierato (programma congressuale della Schlein), derive giustizialiste varie (M5S). Per non parlare della concezione nel rapporto tra impresa e lavoratori propria del leader Cgil Landini, altro riferimento di quell’area.

Tutto ciò tratteggia il ruolo di un super Stato che schiaccia l’agibilità dell’individuo, il contrario del blairismo. E che dire della scuola? «Education, Education, Education» fu uno dei principali slogan elettorali con cui Blair conquistò Downing Street nel 1997. La sua politica si basava sul potenziamento del segmento pre-universitario. Il suo orientamento si basava sulla meritocrazia, ispirandosi alla prima parte del famoso volume del sociologo Michael Young (The rise of meritocracy). Quest’ultimo, poi, si discostò dalla rilettura che ne fece Blair, ma poco rileva. Ben più importante è cogliere la totale incompatibilità con la visione delle politiche educative che hanno i progressisti di casa nostra, dove la strumentalizzazione del nobile concetto dell’«inclusività» si traduce nella dannosa cancellazione dei giudizi,delle sanzioni, in un largo «volemose bene» che non crea le condizioni per la trasmissione del sapere nè per preparasi alla vita.

Quanto alla collocazione internazionale, la linea del New Labour non ebbe tentennamenti, sempre ben schierata contro le dittature, e dal 2003 in poi sovrapponibile addirittura con quella dei neocon americani. Tante ragioni che suggerirebbero a Renzi più cautela nella scelta degli slogan.

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