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Kamala Harris "afroamericana". Lo scivolone di Nardella: è bufera

Christian Campigli
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Un commento finito nella bufera. La solita, ripetitiva voglia della sinistra nostrana di mettere il cappello in vicende extra italiane. La convinzione che essere figli di immigrati dona, in automatico, una sorta di patente di bravura. L'eurodeputato dem Dario Nardella ha da poco pubblicato un cinguettio su X sull'attuale situazione statunitense. "Il gesto di Biden di ritirarsi e lasciare a Kamala Harris la candidatura alla Presidenza è pieno di saggezza, responsabilità e visione. Dopo aver governato con successo, la decisione di lasciare ad una donna e ad un’afroamericana può rappresentare un nuovo inizio per gli Stati Uniti. Si apre una fase completamente nuova che può ridare entusiasmo e speranza ai democratici e progressisti di tutto il mondo". In molti hanno fatto notare come il candidato democratico non si possa definire afroamericano.

 

 

 

L'avvocato californiano è infatti nato a Oakland, da madre indiana, immigrata da Chennai, e da padre di origine giamaicana. Se è pur vero che nell'isola caraibica sono stati deportati, nel corso dei secoli, migliaia di uomini dal Senegal, è altrettanto evidente come quella definizione sia stata bocciata dalla rete come la più classica delle bucce di banana. Vi è poi un aspetto meno evidente, ma se possibile ancor più deprecabile. Kamala Harris non viene giudicata per le sue idee, ma in quanto donna e figlia di immigrati. Una sorta di etichetta che piace tanto ai progressisti di casa nostra, ma che non può essere un merito intrinsenco. L'attuale vice di Biden è brava (o non lo è) in base alle sua idee, alla sua cultura, alla sua capacità di mediazione. La sinistra nostrana vorrebbe avvallare, attraverso la conquista della Casa Bianca, una sorta di rilancio della cultura no borders. Una strategia fallimentare, in particolar modo quando si confonde l'Africa con un'isola posta di fronte a Cuba, ad un passo da Miami e ben distante dal Continente Nero.

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