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M5S, Bisignani e il fantasma di Conte alla resa dei conti: o cambia o scompare

Luigi Bisignani
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Caro direttore, un fantasma si aggira nei palazzi del potere. A Chigi lo chiamano il «Conte Max». Forse per la somiglianza con il protagonista del celebre film nell’attenzione agli abiti - cuciti ad arte da Paolo di Fabio, il suo sarto preferito che condivide anche con Lollobrigida, Tremonti e Maione (pres. Mps) - compresa la candida pochette, o magari quell’ammirazione per i poteri forti. Sicuramente per le abilità trasformistiche. Ma, come nel film, ora Giuseppe Conte è a un bivio del suo curriculum vitae: o rivoluziona tutto o lascia le cose così come sono, condannando il Movimento 5 Stelle ad una inesorabile scomparsa. Il suo gruppo parlamentare lo ha capito e ora chiede uno scatto in avanti, anche la base vuole innovazione, così come la nuova classe dirigente. «Giuseppi» sa bene che lo scontro più duro sarà con Grillo & co., però sa anche che il comico genovese non vuole perdere il bottino di 300.000 euro l’anno e che ormai il suo non è più «il Verbo» e, ancora, che non esistono più irriducibili legati al concetto «né a destra né a sinistra». Dalla sua Beppe Grillo, rimasto icona dei 5S delusi, per riprendersi il Movimento è pronto ad «amnistiare» i quaranta grillini espulsi, rei di aver negato al tempo la fiducia a Mario Draghi. Ma il «camalecontico» Peppiniello ha nove vite come un gatto e, malgrado la disfatta elettorale alle europee, è riuscito a collocare il M5S nell’eurogruppo di estrema sinistra «The Left» - lo stesso di Sinistra Italiana con Ilaria Salis e di Carola Rackete - che gli garantisce finanziamenti, struttura e visibilità, seppur con la spada di Damocle sulla testa per sei mesi, per meglio valutare se c’è una reale convergenza politica. In effetti, mettersi in casa uno che ha esordito in Europa con Nigel Farage, padre della Brexit, poi con liberali, socialisti, verdi e rossobruni, per la sinistra europea non è un bel biglietto da visita. Tuttavia, l’ex avvocato del popolo a volte comprende come si sta in campo.

 

 

Dimostrazione ne è la vittoria di Alessandra Todde in Sardegna che, grazie al lavoro politico e ad una comunicazione efficace, gli consente oggi di stare seduto ai tavoli che contano (vedi autonomia differenziata, in cui la Sardegna è capofila delle regioni progressiste contro Calderoli); inoltre, sta ricompattando i gruppi, cercando di velocizzare la struttura sui territori puntando sui giovani iscritti; desidera persino ricucire con il suo Rocco Casalino, ridandogli in mano tutta la comunicazione fino alle prossime politiche, nelle quali sarà candidato. Conte, antagonista del Pd a sinistra, però sbanda nella sua Regione, a Bari, attaccando De Caro ed Emiliano, con risultati disastrosi propagatisi in tutta Italia. L’intento era quello di contendersi la leadership dell’opposizione. E invece si è beccato 15 punti in meno di differenza dal Pd. Da qui sarebbe d’obbligo una profonda riflessione sulla sconfitta. Ma per ora Conte ha in testa più procedure e bon ton. Nello Statuto del partito, che si è scritto da sé, vieta il turpiloquio. Con lui, il movimento nato dai «vaffa day» tenta di rientrare a palazzo dalla porta principale. Discute necessariamente sull’abolizione del divieto del doppio mandato per eleggere i fedelissimi. Ragiona sulle alleanze nelle Regioni, da Nord a Sud, come in Campania, dove il 5S Roberto Fico sogna. A settembre è previsto il primo congresso dove si cercherà di capire cosa è rimasto del Movimento. Tra i temi sul tavolo, come detto, il terzo mandato. La soluzione sarà cerchiobottista: chi ha fatto due mandati in Parlamento non si potrà candidare per la terza volta, ma potrà presentarsi a comunali, regionali ed europee. Altro tema da dirimere: i nuovi vicepresidenti. C’è malcontento: a parte Paola Taverna, Conte vorrebbe cambiarli tutti. Qualcuno parla dell’ingresso di Michele Santoro, molti ragionano invece sulle donne: Chiara Appendino, tra le migliori, ma azzoppata dai giudici, Taverna impegnata a gestire i territori, e poi la già glorificata Todde, soprannominata il talismano di Conte. Un’altra donna forte è la ex «fatina» Virginia Raggi, che lavora sottotraccia per riportare il M5S alle antiche origini, con il supporto di Toninelli e pochi altri.

 

 

E il Pd? Sanno che se Conte perde il duello, il M5S torna quel contenitore chiuso con cui è impossibile dialogare e perciò hanno capito che attaccarlo non conviene. Quindi guardano e incrociano le dita, consapevoli che senza M5S non si governa. L’amletico Conte, meglio prima che poi, dovrà decidersi. Anche per non ricadere nel modus operandi di quando era premier: le sue incertezze nel gestire i dossier più delicati erano proverbiali. Incapace di punire Autostrade, ha messo le basi per riempire i Benetton di soldi; su Ilva, in una famosa riunione con la famiglia Mittal, sembrava il loro avvocato, anziché quello degli italiani; sul commissariamento della Popolare di Bari solo un furioso Franceschini sbloccò un indeciso presidente del Consiglio ostaggio di Bankitalia. Poi la pandemia, i Dpcm a mitraglia, i pieni poteri, la follia delle dirette Facebook per comunicare le quote di libertà sottratte ai cittadini, i deliri di onnipotenza. Questa la parabola. Conte, che «non aveva mai votato Movimento Cinque Stelle», ora vuole trasformarlo - Grillo permettendo - in qualcosa che lui voterebbe. Consapevole che nessuno, per ora, metterà in discussione la sua leadership, alle prossime regionali in Umbria rischia però di finire dietro Fratoianni. La scialuppa che sta costruendo per traghettare alcuni fedeli parlamentari alla prossima legislatura ha bisogno di rinforzi, altrimenti affonda. Il risultato sarà che si ricreerà il sistema della Quercia (PdS) e i suoi cespugli. O, meglio, ricorderà più l’Asinello di Prodi (2014) e al massimo potrà aspirare ad un ministero, senza portafoglio. Sarebbe un miracolo, ma Padre Pio, il suo Santo preferito, è generoso.

 

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