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Il Pd e i leader usa e getta: quando la voglia di potere mette a rischio il partito

Mira Brunello
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Come un gatto in tangenziale. Ovvero è il tempo massimo concesso a chi ha la ventura di (provare) fare il segretario del Partito Democratico. Regola aurea, inserita nello statuto sostanziale del partito, fin dalla fondazione. Così a fare le spese del nuovo modello «usa e getta», fu proprio il primo incauto inquilino del Nazareno, il re del «ma anche», Walter Veltroni. L’ex sindaco di Roma, a capo di una coalizione che comprendeva anche l’indimenticabile Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, alle politiche del 2008, viene battuto da Silvio Berlusconi, pur ottenendo una percentuale significativa. Naturalmente per i capi corrente lo «yogurt» era già scaduto, le polemiche si intensificano, ed il «povero» Veltroni viene costretto alle dimissioni. Il più forsennato oppositore del segretario era stato Pierluigi Bersani, guarda caso, il suo successore. Dopo Bersani, è il turno di Matteo Renzi, che sfidò l’ex presidente della Regione Emilia Romagna, nel corso di due primarie, una persa, e l’altra vinta. Come successo ai primi due, anche l’ex presidente del consiglio, in prima battuta, registra il «conformismo» della classe dirigente dem. In pratica prima tutti avversari, poi velocemente amici per la pelle. Così la luna di miele, di norma, per l’inquilino del Nazareno, è tutto sommato tranquilla, i gruppi parlamentari si inchinano, i «capi bastone» prendono le misure. Appena lo sfortunato segretario si ambienta, cominciano i grattacapi, i distinguo delle correnti, le pretese dei «porta voti». In pratica una vita di inferno.

 

 

Un destino che dopo Renzi, passa a Nicola Zingaretti (che anticipò tutti dimettendosi in tempi record) ed Enrico Letta, bruciato dalla cocente sconfitta elettorale con Giorgia Meloni. Con Elly Schlein, la ruota ha ripreso a girare, nello stesso modo, con qualche piccola modifica. Elly vince le primarie (perdendo quelle riservate agli iscritti) con l’aiutino da fuori, ovvero con il contributo degli elettori del M5S. Per dire che fin dall’inizio, è stata vista un po’ come una «marziana», poche cose in comune con il Pd. Annuncia subito la guerra alle correnti (d’altra parte come fece Letta), pur avendone diverse tra i sostenitori della prima ora, da Dario Franceschini ad Andrea Orlando.

 

 

Già l’ex ministro della cultura, merita una segnalazione ad honorem: è il vero king maker dem, colui che elegge e distrugge tutti gli inquilini del Nazareno. Da quando perse le primarie con Pierluigi Bersani, si è specializzato nel ramo «Paolo Sorrentino»: vuole avere il potere di far fallire le feste degli altri. Ovvero di scaricarli, dopo averli portati sugli altari. Esattamente come è successo con la «marziana», che ora invoca la riforma del partito. Ovvero la cacciata delle correnti. Un allarme che è risuonato forte e chiaro proprio al king maker, che non ha perso tempo: è di nuovo in pista con una sorta dì correntone, che partirebbe intanto con Roberto Speranza. Ma con l’ambizione di federare di fatto altri capi bastone. Con l’intento nobile di aiutare la segretaria, e quello meno nobile di avviare la sua successione. Insomma è già tutto previsto.

 

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