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Autonomia, le mille balle rosse: ecco tutti i fan (pentiti) dell'autonomia

Mira Brunello
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Il prequel è stato scritto nel 2001, prima riforma costituzionale approvata dalle aule parlamentari (con una maggioranza risicata) e poi confermata con oltre il 60% dal referendum. Riguardava la riforma del titolo V. Fu in pratica l’ultimo atto del secondo governo Amato, con Franco Bassanini ministro della funzione pubblica, Antonio Maccanico alle riforme, Sergio Mattarella alla difesa. Ed una sfilza di ministri del Pds: Piero Fassino, Livia Turco, Pierluigi Bersani, tra gli altri. Il sequel, invece, è stato approvato martedì scorso alla Camera con la fortissima opposizione del Pd e si chiama autonomia differenziata, proseguimento scontato di quella riforma. In pratica, il centrosinistra critica oggi l’esito di un progetto di cui aveva messo le basi. Fu proprio Massimo D’Alema, leader dei Democratici di Sinistra, a introdurre i principi del federalismo nel titolo V della seconda parte della Costituzione, quello che disciplina il funzionamento degli enti locali. Prima da presidente della Commissione Bicamerale, istituita nel 1997 per formulare riforme costituzionali condivisa da centrodestra e centrosinistra, e poi soprattutto da presidente del Consiglio, D’Alema fu promotore della riforma di quella parte di Costituzione insieme al ministro per le Riforme istituzionali Giuliano Amato. Il disegno di legge fu presentato dal governo alla Camera il 18 marzo del 1999, e seguì poi il lungo percorso previsto per le riforme costituzionali. Venne approvato invia definita dalla Camera l’8 marzo del 2001.

 

 

La riforma del governo Meloni, ventiquattro anni dopo, riparte proprio dalle 23 materie indicate nella nuova formulazione del titolo V, stabilendo i modi e le procedure attraverso le quali le regioni possono chiedere al governo maggiore autonomia nel gestirle. In pratica un tema cult per la sinistra fino a pochi mesi fa. Così, ad esempio, la pensava il governatore della Toscana Eugenio Giani, l’anno scorso. «È un valore della sinistra non centralizzare nello stato i poteri, ritengo che l’autonomia differenziata sia un concetto che, se ben impostato, valorizza l’attività delle regioni e favorisce una maggiore capacità di risposta dei territori», disse in una chiacchierata con il Foglio il presidente della giunta Toscana. Con un invito, che evidentemente non è stato rispettato: «chiedo al Pd di mantenere un atteggiamento laico, senza ideologizzare come fosse uno scontro tra nord e sud il dibattito sull’autonomia differenziata». E dire che Eugenio Giani nel 2023 aveva un illustre predecessore: Stefano Bonaccini. Nel 2017, il Presidente del Pd, europarlamentare da pochi giorni, affiancò i presidenti di Veneto e Lombardia nella richiesta di avocare alla regione importanti competenze sulle più diverse materie - 15, nel caso emiliano - e a firmare persino una pre-intesa con il governo di Paolo Gentiloni. Allora Bonaccini aveva una vicepresidente quasi sconosciuta alle cronache nazionali, una certa Elly Schlein, che non ebbe nulla da dire sulla decisione del suo Presidente.

 

 

I due governatori di sinistra però non sono soli, perché ad un certo punto il governo Conte, quello del fortissimo punto di riferimento dei progressisti, con un ministro doc come Francesco Boccia, promosse una legge molto simile a quella di Calderoli. «Sia io che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, crediamo che l'autonomia differenziata, ai sensi dell'articolo 116 della Costituzione, debba essere fatta», le parole del capogruppo dem in Senato, che oggi naturalmente è tra gli oppositori più accaniti. Tra i fan’s di ieri dell’autonomia differenziata, non potevano mancare anche Pierluigi Bersani (fin dai tempi del governo D’Alema), ed Enrico Letta, anche loro ora hanno improvvisamente cambiato idea. Esattamente come Bonaccini, Giani, e quella vicepresidente di allora dell’Emilia Romagna. Elly Schlein, che ha improvvisamente scoperto la malvagità dell’autonomia differenziata.

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